NOME E COGNOME: ROBERTO GALATI
TITOLO DEL RACCONTO: GROENLANDIA, DIARI DI VIAGGIO
VIAGGI: IL MEGLIO DELLA GROENLANDIA 15 GIORNI (2011), KAYAK E TREKKING SUL GHIACCIO IN GROENLANDIA 15 GIORNI (2012)
Ciao a tutti,
aderisco molto volentieri a questa iniziativa. Mi fa molto piacere aggiungere i miei materiali agli altri che vi staranno arrivando in questi giorni e che vi permetteranno di ottenere molto più di un semplice e rapido feedback che solitamente si lascia a fine viaggio. I luoghi che ho visto (sono stato due volte in Groenlandia) meritano di essere raccontati.
Lo desidero partecipare alla categoria racconti
I diari dei miei due viaggi sono caricati qui: http://galatimusic.blogspot.it/
Le due esperienze che ho vissuto in Groenlandia sono state particolarmente importanti.
Mi diletto ogni tanto con la musica, un’altra passione che si aggiunge a quella per i viaggi.
Ho composto una serie di brani con l’intenzionde di descrivere i paesaggi che ho visto in Groenlandia.
Questi brani sono parte integrante dei due diari.
Sono due collezioni di brani, una è scaricabile qui: 1. Galati- Floe Edge [treetrunk 251]
L’altra verrà pubblicata questo dicembre su cd (il mio primo cd!) 2. Galati- Godhavn
Alcuni brani sono caricati nel blog insieme ai diari.
Grazie di tutto,

La Groenlandia, l’isola più grande del nostro pianeta, ha da sempre destato la mia curiosità. Per l’estensione geografica, le rigide condizioni climatiche, la scarsa densità di popolazione e per il suo nome, letteralmente traducibile in Terra Verde, che non ritenevo assolutamente adatto a descrivere un territorio ricoperto da un’imponente distesa di ghiaccio.
A dare origine alla mia passione per questa terra sono stati sicuramente alcuni viaggi fatti al Nord: Scozia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Russia, Siberia. Sono state anche le estati della mia infanzia trascorse sulle cime delle Dolomiti. Molte immagini di quei momenti si sono impresse nella mia memoria, specialmente i momenti più critici e faticosi, come quando scendevo a valle dalle alte montagne sotto la pioggia incessante, il cielo plumbeo illuminato dai lampi, il suono sinistro dei tuoni e l’ululato del vento freddo sulle silenziose forcelle di montagna. Non potrò mai dimenticare la sensazione di timore reverenziale che provavo in quelle occasioni verso una natura tanto bella quanto minacciosa, imponente e ostile. E poi il desiderio, sopravvenuto in modo sempre più nitido con il passare del tempo, di avere accesso a un mondo selvaggio, autentico, lontano dalla mia quotidianità. Ne coglievo il fascino e ne sentivo forte il richiamo. Che cosa mi nascondeva? Perché mi attraeva tanto? Che cosa avrebbe significato per me? Chi sarei diventato?

Realizzare un viaggio in Groenlandia non è facile. E’ molto dispendioso e la mancanza di servizi e di strutture ricettive rende l’isola una meta ancora più difficile da raggiungere. Molti scelgono di visitarla, a mio avviso piuttosto sommariamente, seduti su navi da crociera; altri si fermano a conoscere la capitale Nuuk o la Baia di Disko, dove l’eredità culturale locale si è parzialmente stemperata confluendo in un ibrido che racconta tanto il mondo Inuit quanto quello danese.
Io invece desideravo vivere questa terra immergendomi profondamente in essa, toccandola, respirandola, sentendola. Volevo conoscerla nella sua autenticità. Per questo ho scelto il Sud della Groenlandia come meta del mio peregrinare: volevo esperire una terra selvaggia, inesplorata e autentica dove si sono mantenute integre le tradizioni e il patrimonio culturale.
Ebbene, due viaggi di poche settimane mi hanno permesso di cogliere un’affinità tale da lasciarmi senza fiato: l’aver posato lo sguardo su quelle meraviglie ha dato forma ai miei sogni e, contrariamente a quanto accade di solito, la realtà si è rivelata più sorprendente di quanto mi aspettassi.
Anche se spesso lo dimentichiamo, siamo esseri fatti per vivere la terra, averne coscienza, sentirci parte di essa. Eppure, invece, rimaniamo spesso ingarbugliati in una realtà fittizia, fatta da noi per noi: una gabbia oscurata che ci preclude di capire la nostra vera essenza, confondendoci con il superfluo. .

Così il mio essere uomo di città, con le mie abitudini consolidate negli anni, il mio lavoro, la mia quotidianità e una sostanziale indolenza di fondo, si è improvvisamente scontrato con il desiderio di vivere un cambiamento e di esplorare emozioni nuove (di riscoprirmi per quello che sono realmente). Partire presupponeva una rottura con il mondo reale che conoscevo e nello stesso tempo auspicava una riconciliazione con il mio essere autentico, puro, genuino. Sarei stato in grado di affrontare questo viaggio? Volevo mettermi alla prova. Volevo essere protagonista di un viaggio nel tempo. Di un viaggio dentro me stesso. Quali emozioni avrei vissuto?
Il resoconto di questa esperienza è una collezione di suggestioni trascritte fugacemente nel momento stesso del viaggio. Mi piace pensare a una collezione di polaroid che cercano di cogliere l’attimo e lo stupore del momento. Mi sia perdonata quindi la semplicità del linguaggio, le frasi spezzate e la spontaneità delle impressioni che ho cercato di raccogliere e di condividere.
31/7/2011
Il giorno della partenza. Prato della Valle oggi è un luogo di passaggio, come lo saranno molti altri, di un itinerario lungo e ignoto, verso il Nord del mondo.

Dall’aereo si vede solo una distesa infinita di nuvole: è un mare bianco con onde e increspature che diventa un’enorme coperta grigia una volta scesi a terra. E’ ancora difficile realizzare dove andrò e cosa vedrò. Per il momento sono atterrato in Germania tra aeroporti, mezzi meccanici di locomozione e luoghi coperti di cemento. A pochi passi dall’aeroporto individuo un ordinato parco che raggiungo a piedi e dove mi fermo per un paio d’ore. Sono passato dal caos alla quiete in pochi istanti. Dal verde degli alberi scorgo tram sospesi nel vuoto che portano in città; anche fuori dall’aeroporto nulla sembra toccare il suolo. Qualche squarcio di sole e rimango piacevolmente assorto nei miei pensieri.
L’attesa a Düsseldorf è lunga ma viene ripagata da un volo che ricorderò a lungo. Il manto bianco mi accompagna ancora per tutto il resto del viaggio. Diventa sempre più soffice e diafano quasi a volermi accogliere e cullare. Alla fine si espande fino a diventare immateriale e intangibile e mi consegna a una precipitosa discesa nel nulla. Terra. E’ l’Islanda. Mi trovo immerso nelle note indistinte degli
Slowdive mentre una rapida corsa verso il sole mi permette di scorgere il verde intenso dell’isola. L’assenza di case e di strade, i rilievi in lontananza, il mare, le scogliere, un paesaggio fiabesco immerso nella luce del tramonto. Stiamo atterrando sulle acque del mare.
Scarpe da trekking ai piedi della maggior parte delle persone all’imbarco. Zaini e tende al ritiro bagagli. Abbigliamento sportivo e pochissime concessioni al superfluo. In Islanda è la natura che la fa da padrona, bisogna adeguarsi e viverla per quello che è.
La semplicità della guest house mi conquista. Nella sua imperfezione è incantevole: è il luogo perfetto per rifugiarsi, per farsi accogliere e accudire in un momento d’iniziale spaesamento. E’ il luogo giusto per cominciare a sentire lo spirito del posto. La Guest House è gestita da una sola famiglia. Qui tutti i lavori sono svolti con enorme dignità. Ognuno fa la sua parte: chi accoglie i turisti, chi riordina le camere, chi lava i piatti, chi cucina. Mi distendo sul letto e chiudo gli occhi. Comincio a prendere le distanze dal mio io abituale e mi ritrovo viaggiatore.
1/8/2011
L’Islanda è una terra dura, aspra, cupa. E’ il connubio di cieli grigi, terra verde scuro e pietre vulcaniche nere. Quello che percepisco è un paesaggio severo, che si fa rispettare ma che al contempo accoglie e ripara. Qui tutto è essenziale. Non c’è spazio per il superfluo.
A Reykjavik si arriva in silenzio. Case basse, il mare, qualche nave, piste ciclabili e pedonali lungo la costa. Una città, una strada: la vita si sviluppa lenta lungo un’arteria principale per poi sfaldarsi in isolati quartieri residenziali. Nessuno sfarzo. Nessun capriccio. E’ una cittadina modesta. Solo migliaia di gabbiani. E del resto come potrebbe esistere una città di mare senza gabbiani?
Mi accoglie una pioggerellina sottile, intervallata da qualche squarcio di sole. Ci sono pochissimi alberi e quelli che scorgo sembrano essere voluti dall’uomo. Trovo che questo paesaggio sia bellissimo. Sì, mi rendo conto che è una concezione di “bello” soggettiva, ma quello che vedo è esattamente quello che più mi piace. Che permangano i cieli grigi! Ritroverò il sole al mio rientro a casa. Ogni città di mare del Nord deve avere il suo meraviglioso cielo grigio. Ma qui c’è qualcosa di più. Percepisco un legame profondo fra il mondo civile e la terra di cui esso si nutre. C’è rispetto, reciprocità, fiducia. E’ un rapporto simbiotico profondo. Dove sono nato e cresciuto tutto ha origine dall’uomo e così la città stessa è uno specchio della cultura dei suoi abitanti. Qui invece tutto deriva dalla Natura che appare tanto bella quanto indomabile, minacciosa, temibile. Gli uomini non si sforzano di domarla ma si adattano a essa traendone tutti i benefici di cui hanno bisogno per vivere dignitosamente. Rispetto è la parola chiave.
Ho capito che non mi sarà fatta nessuna concessione in questo viaggio. Sono un piccolo ospite di terre selvagge, aspre e dure, che non si piegano alla mia volontà. Mi preparo e lesino le forze.
2/8/2011
Aeroporto di Reykjavik, voli interni. Il tipo di turismo è esclusivamente sportivo; zaini, tute, scarpe da trekking. Di aeroporto in aeroporto il filtro ha selezionato gli amanti della natura. Sembra non esserci spazio per altro.

E poi eccola, la Groenlandia. Il paese dalle infinite catene montuose. Ghiacciai, montagne, mare e iceberg. Il tempo è incredibilmente bello: sole pieno e piccole nuvole in lontananza. Uno spettacolo a cui non avevo mai assistito prima. Sembra di arrivare su un altro pianeta.
Atterro a Narsarsuaq. Sono euforico. Scendo dall’esile velivolo sul quale ho viaggiato e lo osservo un po’ turbato e confuso. Non amo volare e questo aereo ora mi sembra davvero piccolo. Sposto lo sguardo in direzione opposta e valuto le dimensioni altrettanto modeste dell’unico edificio che costituisce l’aeroporto. Cammino incantato verso l’area degli arrivi, circondato da un paesaggio di uno splendore straripante. Il mio sguardo si perde, non riesco a cogliere l’essenza di questo spettacolo inedito. E’ davvero troppo.

La pista di atterraggio è racchiusa tra basse montagne che proseguono verso immensi e bianchi ghiacciai interni, l’essenza della Groenlandia. E poi fiordi e un mare azzurro puntinato di iceberg. Nonostante la sua maestosa imponenza mi appare come un luogo così intimo, segreto, appartato…
Incontro i miei compagni di viaggio e insieme riceviamo le prime istruzioni della guida. La Groenlandia è una terra incontaminata, pura, intatta, i suoi abitanti la rispettano e ne hanno cura. Noi non possiamo essere da meno. Questo dettaglio si rivela per me sostanziale: sono ospite di questa terra. Noi tutti lo siamo. Qui, in mezzo ai ghiacci, come in qualsiasi altra parte del mondo. Eppure spesso e volentieri ci comportiamo da padroni per salvaguardare i nostri piccoli interessi. Respiro profondamente. Riempio i polmoni di aria fredda e di odori nuovi. Mi sento per la prima volta parte del tutto. Non sono un estraneo qui. Mi sento a casa. Ed è una sensazione disarmante.
Organizziamo il nostro bagaglio già ridotto all’essenziale; c’è spazio per pochi indumenti che di volta in volta laverò nel corso del viaggio. E’ un continuo sottrarre, è un lasciar andare gli eccessi, un adeguarsi con accortezza all’indispensabile. Ed è munirsi di reattività, intuizione, consapevolezza.
Ci dirigiamo a piedi verso il porticciolo. Ci esaminiamo, ci valutiamo, ci osserviamo; verifichiamo se siamo spinti dalle stesse motivazioni, se nutriamo gli stessi desideri. Se possiamo trarre beneficio gli uni dagli altri nella ricerca delle nostre aspirazioni. Se ci accomuna lo stesso sentire. E rimaniamo incantati e ammaliati dalla visione degli iceberg, ora così vicini da poterne vedere i colori, le forme, il lento scivolare nell’acqua.
Carichiamo ordinatamente gli zaini sul gommone e molliamo gli ormeggi. Realizzo che anche io sto lasciando scivolare dietro di me i tormenti e le paure mie più intime. Sono zavorre troppo pesanti da portare sin qui.
Dal cielo al mare. Il viaggio prosegue tra i fiordi e gli iceberg di tutte le tonalità di colore, dal bianco più puro all’azzurro cobalto. E’ un paesaggio che toglie il respiro! E’ puro senso di libertà. Spazi senza confini, sterminati, inesplorati. E’ un tuffo in una realtà inedita, primordiale. E’ una corsa senza fiato verso l’immensità.
Dopo aver percorso il fiordo di Tunulliarfik, facciamo una breve tappa nel porto di Narsaq, costellato di piccole case colorate. Sulla baia solo iceberg e un mare limpido e pulito. Il giallo, il rosso, il blu, il verde delle case si confonde con la roccia e con il sottile manto vegetale. Sembra un dipinto: le immagini sono intense, magnetiche, rapiscono lo sguardo. E’ un mondo onirico e reale insieme.
Proseguiamo la corsa nei fiordi, lungo l’Ikersuaq Sermilik. Indossiamo guanti, cappelli di lana e occhiali per ripararci dal vento e dal freddo. Percorriamo ancora un lungo tratto prima di poggiare lo sguardo su un’immagine che è un miraggio, una chimera: il grande ghiacciaio, il Qalerallit (o Qaleraliq)
1.
L’accampamento è situato sulla riva opposta. C’è un torrente per lavarsi e uno scenario per risvegliare l’immaginazione. Era così che mi prefiguravo la Groenlandia. Vastità, asperità, lontananza, autenticità, sontuosità. E infinite distese di bianco. Un giorno che ricorderò per sempre.
3/8/2011

Dall’accampamento si vedono tre enormi lingue dell’immenso ghiacciaio Qalerallit. Nella cartina geografica, stampata pochi anni fa, si vedono raffigurate due lingue di ghiaccio; la roccia sottostante oggi emerge visibilmente, è l’effetto del riscaldamento globale. Eppure per i nostri occhi questi spazi sono illimitati.


Effettuiamo un primo sopralluogo in questo posto incantevole, accompagnati dalla timida presenza di due caribù. Mirtilli e fiori viola coprono una terra arida ed essenziale. Una flora che resiste al lungo periodo invernale. Il fiume scorre e la sua presenza si avverte soprattutto nelle ore notturne, insieme al severo suono dei seracchi e del ghiaccio che si crepa e cade in acqua. E’ il suono del tuono, ma più cupo, più minaccioso. Nasce dal nulla e scompare nel nulla.

E’ una presenza continua, è il linguaggio della natura, feroce e spietato, comunica autorevolezza, forza, superiorità, profondità, regalità. Ascolto inerme e impotente, e mi sento così vulnerabile e fragile, i miei occhi e le mie orecchie vedono e sentono forze dimenticate, non immediatamente accessibili. La natura si fa osservare, sentire e rispettare.
Via mare raggiungiamo la sponda opposta, seguiamo quel suono. Ramponi e corde per un’escursione sul ghiacciaio. Le grandi fratture di un freddo color azzurro sono bellissime quanto insidiose e temibili. Celeste, bianco e grigio si mescolano al vento e al suono del fiume che impetuosamente entra nel mare. Una risalita verticale su una parete di ghiaccio costituisce un momento di condivisione gioviale di questo spettacolo. Tutti noi cerchiamo con lo sguardo il limite e l’oltre.
E’ un paesaggio lunare che merita di essere colto in tutta la sua bellezza anche dall’acqua. Sfruttiamo per questo il nostro gommone, il nostro unico mezzo di trasporto. Ci conduce lungo i fiordi, nelle sue insenature, in un viaggio tra gli iceberg che galleggiano indisturbati nelle fredde acque che ci appaiono ora incredibilmente bianche, ora azzurre ma sempre profonde e solitarie. Il fronte del ghiacciaio è infatti l’unico luogo popolato perché solo lì, il movimento dell’acqua che vi si infrange senza sosta, richiama la vita. E’ il regno dei gabbiani.
E così Madre natura gentilmente ci accoglie docile prima di riprendere il comando assoluto e di sedurci con una lunga e splendente notte. Quanta grandezza per gli occhi e l’animo di noi piccoli uomini.
Dal cielo, dal mare, a piedi, e nuovamente a piedi verso i ghiacciai.

Dall’accampamento saliamo lungo un sentiero che avanza in un ambiente alpino. I colori lentamente cambiano, la vegetazione si semplifica. Prima dell’ultima salita il terreno su cui camminiamo diventa un omogeneo tappeto di un colore verde scuro, carico e deciso. Poi solo pietre, un’ampia superficie grigia, l’antico letto di un ghiacciaio, ora sciolto. Questa ampia valle glaciale è la dimora del lago Tasersuatsiaq, fonte d’acqua per i caribù. Silenziosamente si avvicinano e ci osservano con curiosità. Si muovono in gruppo, i più piccoli da soli, attratti dalla nostra presenza e meno spaventati degli adulti.

Lasciamo alle nostre spalle il lago e saliamo ancora; il paesaggio torna a cambiare, una vegetazione bassa e tipicamente alpina ci accompagna fino alla sommità del monte.


Dalla cima le tre lingue del ghiacciaio acquistano profondità verso l’interno e in discesa verso i fiordi. In lontananza alte montagne e luoghi ancora più inaccessibili fanno da corona a un palcoscenico improvvisato. Va in scena “La danza dei caribù”. Sono animali agili, sinuosi che si muovono a rapidi e piccoli saltelli. Resto affascinato dal loro incedere ritmico.
Il rumore dei seracchi è continuo e incessante, più insistente quando c’è il sole. Grossi blocchi di ghiaccio cadono in acqua e alte onde si alzano e si placano sotto lo sguardo indifferente dei gabbiani. E’ un suono che avverto sempre minaccioso, ma che fa ora parte della maestosità del ghiacciaio.
Ed ecco arrivare piano piano un tramonto che si distende su un paesaggio che sa di meraviglia e di cui mi nutro avidamente in ogni momento della giornata.
Scendiamo e rinfresco piedi, gambe e parte del busto nelle fredde acque del lago. Nell’immediato mi rigenerano e mi ridanno forza, è un richiamo, una lusinga, una magia, un incantesimo al quale cedo con leggerezza. E’ una delizia camuffata, l’appagamento si tramuta presto in malessere. Dopo cena prendo due aspirine e mi addormento tremando. Sintomi da influenza che allontano col riposo.
5/8/2011
Ho già acquisito nuove abitudini. Mi alzo presto, svegliato dai tenui colori dell’alba e raccolgo dolcissimi mirtilli; mi sono rimesso dopo una notte di sonno. Assisto al risveglio della natura. La temperatura si deve ancora alzare e il manto vegetale attende i primi raggi di sole per ammorbidirsi. Oggi mi accompagna e mi segue schivo e discreto un piccolo caribù. Assaggio un paio di bacche di empetrum nigrum, nere, dissetanti e fresche, dal sapore più amaro dei mirtilli.
E’ l’unico momento della giornata che dedico interamente a me stesso: una passeggiata tra piccoli laghi, basse piante di salici e distese di mirtilli. Ci sono molti fiori, viola, rosa, gialli; una timida esplosione di colori prima del bianco assoluto.
Passiamo la mattina vicino all’accampamento, sopra le dolci scogliere. Ho la netta sensazione che ora la mia mente è presente in questo luogo, in questo momento; è distante dalle mie abitudini, dal mio luogo di origine. Sento che il distacco si sta compiendo ma che avverrà con maggiore evidenza nei prossimi giorni, quando il continuo contatto con questa terra diverrà abitudine. Quando percepirò distintamente gli effetti derivanti dall’esclusivo rapporto con una natura integra e limitatamente accessibile.
Il tempo scivola lento e sereno. Sono assorto davanti al grande ghiacciaio. Il vuoto dentro di me.
Cerco di imprimere la sua immagine nella mia memoria prima di consegnarlo agli occhi di altri ospiti che ci succederanno a breve. Il grande ghiacciaio Qalerallit.
Lasciamo l’accampamento e saliamo sul gommone. Amo viaggiare per mare, percorriamo fiordi, insenature e ci spingiamo fino al mare aperto. Qui si avverte la forza, l’impetuosità di queste acque, è una furia primordiale che si vince con la velocità. Il gommone accelera e salta sulle onde, è tutto un sussulto, un sobbalzare, il muro di zaini posto al centro dell’imbarcazione pende da una parte e poi dall’altra. Ci si aggrappa alle corde e ci si affida alle mani del pilota.

Raggiungiamo il minuscolo porto di Qaqortoq, una piccola città di 3000 abitanti. E’ il primo contatto con la gente indigena. Vorrei capire come vive questo popolo, cosa ha generato il contatto tra due culture così lontane, quella danese e quella Inuit. Non so davvero cosa aspettarmi.
C’è un po’ di pioggia, sottile e appena percettibile, il cielo spruzzato di grigio scurisce i colori del paesaggio. Ci sono poche persone per le strade. Il piccolo mercato del pesce sembra ancora aperto, pare essere il posto di ritrovo degli abitanti del luogo. Alcune persone sono sedute sulle panchine poste in riva al mare, parlano e osservano il panorama.
Poco distante dei bambini giocano con un pallone, qualcuno in bicicletta, qualcuno vicino alla fontana che si trova al centro della piccola piazza. E’ l’unica fontana dell’intera Groenlandia.
Poggio lo sguardo su un mondo che non conosco e di cui fatico a coglierne l’essenza e a interpretarlo. Che cosa lega questo villaggio a quell’immenso ghiacciaio che ho stampato nella memoria? A queste acque gelide e costellate di iceberg? Capirò presto.
Camminiamo verso l’ostello e osservo un negozio di informatica, in vetrina l’ultimo modello di un bianco e splendente computer.
Ceniamo in un ristorante thailandese, non per stravaganza o per un inarrestabile impulso a sperimentare tutto ciò che ci appare esotico, ma semplicemente perché è l’unico ristorante del posto. Mangio carne di caribù e di balena impreziosite con sapori orientali, una fortunata combinazione di arti culinarie difficili solo da accostare col pensiero. Eppure l’antica origine asiatica di questo popolo rende meno curiosa questa associazione di gusti.
6/8/2011
Mi sveglio nella piccola stanza dell’ostello e osservo le piccole case arroccate sulle colline, sparse come colorate caramelle di zucchero.

Nella cucina e nel piccolo soggiorno dell’ostello incontro una famiglia del posto che la sera prima aveva diffuso nei locali un penetrante odore di pesce; un pasto serale meno esotico del mio.

La televisione è accesa e ascolto incuriosito un telegiornale in lingua locale.
Fuori poche strade e una sensazione di pace assoluta. Incredibilmente trovo qui tutti i servizi necessari. Ma percepisco anche una tensione molto forte fra l’identità di un popolo fiero delle sue tradizioni e della sua terra e il cambiamento richiesto per omologarsi al mondo moderno. Una sorta di tiro alla fune dove la corda viene tirata, ora da una parte ora dall’altra.
Le sculture in pietra disseminate in diversi luoghi della città fanno pensare a entità ultraterrene che proteggono, riparano e difendono gli abitanti di questa terra.


Una breve passeggiata prima di ripartire mi consegna nuovi spunti di riflessione. Assisto di sfuggita a una partita di calcio, lo sport nazionale della Groenlandia. I bambini giocano all’aperto, inebriati, sembrano gustare ogni singolo momento di questa breve stagione estiva. Che cosa significa per questi bambini il gioco del calcio? È un pretesto per vivere all’aperto? O è amare uno sport proveniente da paesi lontani? Scendo dalla piccola altura sulla quale è stato costruito il campo sportivo e mi dirigo verso il porto, lasciandomi alle spalle numerose case colorate, alcune fatiscenti e modeste. Nel centro del paese è stato ultimato da poco un grande magazzino a due piani. Al piano terra servono junk food occidentale, e i miei pensieri mi portano al piccolo mercato del pesce a pochi metri di distanza e alle facce ruvide e grinzose degli anziani pescatori seduti sulle panchine del porto. Al primo piano c’è abbondanza di abbigliamento sportivo e tecnico per attività invernali, articoli di qualità eccellente.

Le fibre sintetiche hanno sostituito i materiali naturali del posto. Esco dall’edificio e mi accoglie questo panorama fatto di mare, monti e piccole case colorate; essenziale ma completo. Mangio un hot-dog in un baracchino sul molo, l’ho scelto per il piacere di mangiare in riva al mare, nel porto di questa piccola città. Il gestore è danese, mi dice che si è trasferito qui e che ha deciso di non tornare più in Europa. La pace e la tranquillità di questo posto e di tutta la Groenlandia l’hanno indotto a fare questa scelta. E’ soddisfatto e sereno; vive nell’essenzialità e nella quiete. Lo saluto e mi allontano, colmo di ammirazione, da quel piccolo rifugio profumato di senape, carne, audacia e arditezza.


Proseguiamo il viaggio via mare; dopo questa breve parentesi urbana ci re immergiamo nelle profondità di questo mondo ancestrale.
L’isola di Uunartoq è una fuga da tutto. Qui non c’è spazio per scure riflessioni, non c’è un passato, un presente, un futuro. Il tempo si ferma. E’ l’Eden. La sua piccola vasca di acqua termale è un non-luogo, è la porta per accedere al verde di questa terra, al suono degli iceberg che si sciolgono placidamente in acqua, all’alba sulle montagne innevate, alla Natura nella sua accezione più ampia.
E’ un non-luogo anche la piccola casa gialla della famiglia Inuit che cucina per noi. Una carezza, un conforto che dona serenità. Realizzo di trovarmi in uno spazio senza tempo, lontano da tutto e vicino all’essenza delle cose. L’amore di una nonna, il sorriso di una bambina, una cena calda, l’ospitalità di un vecchio marinaio, il calore di una casa. Piccole cose, forse, ma vitali. E finalmente capisco: questa è l’essenza dell’isola. E’ sorprendente. C’è più umanità qui che altrove. E’ come se la Natura imperante, apparentemente inospitale, avesse cristallizzato e preservato le cose semplici, innocenti, pure. Mi ritrovo meravigliosamente bambino.
Le sobrie ed essenziali croci bianche all’interno di un recinto appena abbozzato, che incornicia il cimitero, evocano morigeratamente il senso della vita, il ritorno alla terra.
7/8/2011
Si vola tra le acque, talvolta placide e tranquille, altre volte, in mare aperto, turbolente e nervose. Non lontano da Uunartoq un getto d’acqua, uno spruzzo, ci avvisa della presenza di una balena che di tanto in tanto affiora dall’acqua e con estrema eleganza ridiscende nel suo mondo.
Salpiamo a Tasiusaq, un piccolo villaggio di pescatori e fattori. Case colorate, all’interno estremamente essenziali. Pesce appeso a essiccare, cibo che darà nutrimento nel lungo periodo invernale, una scuola elementare e poco altro. Alcuni bambini scendono all’attracco per vedere il gommone. Nel villaggio un bimbo gioca con dei colori, la mamma ci saluta e rientra in casa. Pochi gesti che esprimono assoluta cordialità. Un saluto è prezioso, dalle barche, dalle case, per strada, sempre. L’insensibilità e l’indifferenza sembrano essere una caratteristica distintiva della nostra società. Mi abituo piacevolmente in fretta e ricambio o anticipo il saluto.
E’ un villaggio isolato e solitario, le lunghe distanze che percorriamo via mare sembrano amplificate dall’assenza di strade e mezzi di trasporto. Le stagioni fredde acuiscono la fatica e rendono ancora più difficili gli spostamenti. La vita è commisurata all’ambiente, è essenziale e semplice; ai nostri occhi sembra castigata e severa.

Ci lasciamo alle spalle il piccolo centro abitato e ci apprestiamo ad affrontare una lunga escursione a piedi in una regione della Groenlandia meno polare; è una terra tinta con colori vivaci.
Avanziamo in uno spettacolare paesaggio fino al lago Tasersuaq. Abbraccio con lo sguardo l’immensità di questo luogo, le diverse sfumature di colore, il verde dei prati che si confonde con il rosso scuro e il bianco dei fiori; l’azzurro quasi verde dell’acqua di mare. Le pareti delle montagne imbiancate di neve. La pace e il silenzio.

Raggiungiamo la fattoria di Saputit e possiamo gettare un rapido sguardo alla vita che scorre in questo luogo,. Mi sembra uno spaccato di vita d’altri tempi ma forse, più semplicemente, è solo un mondo diverso dal mio. Due universi paralleli che si sfiorano solo per un attimo.
La presenza di pecore, cavalli, cani e gatti rivela un aspetto per me inedito di questa terra. L’immagine di un luogo coperto solo di ghiaccio è smentita da questo paesaggio quasi rurale. Presumibilmente ciò che vedo si manifesta per un breve periodo dell’anno. Le motoslitte parcheggiate vicino agli edifici della fattoria palesano un ambiente fatto di neve e di freddo, che per pochissimi mesi si tinge con colori più vivaci.

Fa davvero caldo e sentiamo la necessità di bere un po’ di acqua. In fattoria ci portano un piccolo recipiente che dobbiamo farci bastare. L’acqua è un elemento prezioso in questo periodo dell’anno; un torrente a mezz’ora di distanza è l’unica fonte da cui si può attingerne. La neve, abbondante nel periodo invernale, dirimerà il problema.

L’acqua sembra essere l’elemento dominante in Groenlandia, più della roccia, delle montagne e più dei verdi manti vegetali. E’ l’elemento che offre più suggestioni, che favorisce l’accesso al mondo dell’immaginazione. Facilita l’elaborazione di fantasie, sogni, desideri. E’ presente ovunque, esiste nei maestosi e imponenti ghiacciai, nel mare, nei grandi laghi. Nei freddi torrenti nei quali trovo sollievo e mi lavo, nelle calde acque termali; mi ridona vigore, forza, energia. La parola Tasersuaq significa come un mare, nella sua semplicità celebra l’imponenza di queste acque, descrive l’immensità, la vastità.
Eppure, ora che ne sentiamo il bisogno, scarseggia.
Un immenso lago e una distesa di montagne fanno da sfondo al nostro campo. Una giornata di sole senza una nuvola, iniziata nelle calde acque della sorgente di Uunartoq e terminata davanti alle acque color turchese del lago Tasersuaq.
8/8/2011
Oggi comincio ad accusare un po’ di stanchezza. Gli spostamenti sotto il sole incessante sono continui e le attività fisiche a cui ci sottoponiamo sono pesanti. E poi è tutto talmente magico che nei pochi momenti in cui potrei riposare, preferisco riempire gli occhi osservando quello che mi circonda. Tutto il resto è così lontano…nessuna preoccupazione, nessun problema, nessuna tensione. Vivo e assorbo un’esplosione d’immagini e sensazioni che sembrano enormi fuochi d’artificio. Beatitudine assoluta!
Posso dire con sollievo di aver ritrovato il mio io viaggiatore, per troppo tempo schiavo di problemi legati alla quotidianità e probabilmente non tali, e di aver tratto beneficio dalla purezza di quello che mi circonda per assorbirla dentro di me. Mi sento pulito, integro, forte come non mai.

Sto compiendo un viaggio alla scoperta del mio io primordiale, in balia di sensazioni forti e indescrivibili che mi lasciano attonito e senza parole. La mia mente, solitamente sempre assalita da mille tormenti, è ora piacevolmente libera e leggera. Forse questo è quello che fa la differenza fra il turista e il viaggiatore: se il primo osserva quello che gli sta attorno mantenendo le distanze, considerandolo come altro da sè, il secondo assorbe quello che osserva, se ne appropria, lo porta con sè, effettua un viaggio interiore che lo restituisce cambiato.


La torreggiante montagna che si erge davanti a noi si chiama Ulamertossuaq, traducibile in come un libro aperto. Il nome esprime il senso di questo paesaggio, di questi luoghi; ogni cosa è dichiarata, è esplicita, tanto nello splendore quanto nella severità, nella bellezza e nel rigore, nella solennità e nella semplicità. Questa cima è una verità rivelata, è un luogo e un’idea, suggerisce ed è essa stessa una chiave di lettura di questi spazi; indica, manifesta, fa capire.
L’approccio timoroso, impacciato ed esitante dei primi giorni si è rinnovato ed evoluto, è maturato. La connessione con questo mondo, la percezione di farne parte, di capire, inizialmente abbozzata, ora è più forte. Ho coscienza di ciò che ascolto, che vedo, che tocco, che assaporo, che percepisco con l’olfatto; i sensi sono più vivi, più accesi; in sintonia con l’ambiente. Non desidero e non chiedo, sono calmo, appagato.
In questa nuova condizione in cui vige solo la necessità di togliere, di sfrondare, la bramosia del possesso, l’urgenza di avere, sono sensazioni che stridono con ciò che ora avverto. Conosco solo l’urgenza di essere, di confluire in questo ambiente.
9/8/2011
Una camminata alle pendici dell’Ulamertossuaq in un’altra giornata di sole.
Saliamo lungo un sentiero che ci conduce, attraverso un meraviglioso paesaggio alpino, verso un luogo nascosto, un angolo remoto riservato solo per noi. Rinfreschiamo i piedi nelle fredde acque di un torrente che proviene dal ghiacciaio sovrastante e assaporiamo fiori viola che hanno il sapore del miele. Riposiamo alle pendici del monte, e lasciamo i pensieri librarsi sulla sua sommità, mille metri in aspra pendenza, una vetta scoscesa, dove dimorano le aquile.
Ascolto un po’ di musica. Scelgo i
Cranes perché si adattano all’ambiente. E’ una sensazione strana: finora ho sentito l’esigenza di togliere, di sottrarre e ho preferito non ascoltare altro che i suoni della natura. Ma ora devo fare un’eccezione: mi concedo una carezza leggera in un breve momento di riposo.
E’ una musica lontana dall’inquietudine delle città, è impalpabile, onirica, evanescente, è un lungo momento di riflessione. “Diorama” è la quiete della notte, è un acquario luminoso, è un paesaggio visto attraverso un caleidoscopio. E’ un gioco di specchi, di luci, di bagliori. “Move along” è un respiro lento e profondo, i colori sbocciano e la canzone prende il volo, maestosamente, finendo per immergersi in una luce scintillante, intensa e abbagliante, in una delicata e morbida schiuma sonora, “Sleepwalking”. Con “High and Low” si sale dalle profondità marine e si ritorna a galla. Apro gli occhi e lascio vagare lo sguardo sul grande monte.

Lungo il percorso che ci riporta a valle, camminiamo su una vasta distesa di arbusti di qajaasaq (Ledum Groenlandicum), le cui strette foglie hanno la forma di tanti piccoli kayak. L’aroma di queste piante si diffonde nell’aria, ogni passo solleva una nuvola di profumo. E’ una pianta medicinale che guarisce le vie respiratorie e abitualmente si adopera per farne degli infusi. Ne prendo in grande quantità e utilizzerò il raccolto per insaporire la grappa.
L’equilibrio e l’armonia con l’ambiente determinati dal prolungato soggiorno in tenda, in una condizione del tutto inconciliabile e così lontana dalla mia realtà abituale, mi inducono a togliere, a sottrarre ancora; per due notti rinuncio a dormire al coperto, sento il desiderio di addormentarmi disteso sul prato. Cerco avidamente lo spettacolo dell’aurora boreale. Mi aspetta una lunga notte sotto un cielo trapuntato di stelle. E le stelle cadenti diventano scie luminose che rincorrono i miei desideri.
10/8/2011
Il tempo trascorre lentamente, senza preoccupazioni. Un’altra notte sotto le stelle, travolto dalla maestosità dei venti, baciato dalla luce lunare, e aggrappato alla solida roccia delle montagne che mi circondano.

Trascorriamo il giorno camminando verso il “Grande Muro” dell’Artico, l’imponente mole di granito dell’Ulamertossuaq. Lo sguardo si apre su spazi immensi: una vallata ai piedi di un grande ghiacciaio. Il rumore dei passi sulla roccia e la mente che viaggia in questi luoghi lontani. Il cielo si gonfia di vento freddo e le montagne emergono libere, selvagge. Siamo ai confini del mondo e della sua civiltà.
Continua il mio viaggio interiore, il viaggio nell’anima.
Mi rendo conto che vivendo costantemente all’aperto le sensazioni si amplificano. E’ come se la Natura volesse accompagnarmi in un viaggio dentro me stesso per aiutarmi a scoprire chi sono, quello che provo e quello di cui ho realmente bisogno. Mi sta letteralmente aprendo il cuore. Se fossi un altro griderei. Correrei fin sulla roccia a strapiombo sul mare e mi tufferei a capofitto. Cavalcherei la groppa di un caribù e mi farei disarcionare su un prato pieno di fiori. Mi farei calare da una parete di ghiaccio per arrivare nella profondità della terra. Come si fa a raccontare tutto questo?

Posso solo aggiungere che se prima pensavo alla Groenlandia come a uno dei pochi luoghi di questo pianeta in cui si può parlare ancora di esplorazione, ora mi rendo conto che nel farlo si finisce inevitabilmente per esplorare se stessi. E così, la luce che inonda le sue lande selvagge, illumina come una torcia il mio animo scuro. Fa chiarezza. Porta consapevolezza. Non so come farò a rientrare a Padova.

E’ tuttavia una natura estrema oltre che spettacolare, rende difficile la sopravvivenza e nello stesso tempo restituisce il senso della realtà; si manifesta nella sua forma più vera e concreta, senza filtri, senza interpretazioni. Una scossa di terremoto, un tornado, un’eruzione di un vulcano, riconducono alla nostra essenza, fragile e transitoria. Questo ambiente suggerisce e incute gli stessi timori suscitati da simili calamità. Il monito è lo stesso, esposto in modo meno impetuoso e violento ma continuo; la grandiosità di questi ghiacciai, il suono dei seracchi, il gelo, le scure, profonde e fredde acque, la loro costante presenza pesa sullo sguardo e sui sensi.
La Natura si presenta in tutte le sue forme, sia funeste e severe sia liete; sa essere sorprendente. La maestosità, la grandiosità di questo mare è la dimora di svariati esseri viventi, che ai nostri occhi, sono nutrimento, invitante e gustoso. Sulla riva, quando l’acqua si ritira, ci viene offerta un’enorme quantità di frutti di mare, freschi, sani, puliti.
Sono fiero dei progressi scientifici e tecnologici compiuti dall’uomo, non desidero un ritorno all’età della pietra, ciò che esprimo in questo resoconto di viaggio è solo la meraviglia e lo stupore suscitato da una Natura così autentica e genuina. Osservo ammirato, tuttavia mi sento così ingenuo, immaturo, inesperto. Mi sembra di non collimare con questa realtà, la mia visione antropocentrica confonde e oscura. E’ come vedere il mondo attraverso un caleidoscopio. Ho percezione di tutte le facce, di tutte le sfumature, tuttavia quando le metto insieme la realtà mi sembra falsata, per quanto affascinante. Non riesco a coglierla nella sua totalità, manca la visione d’insieme, vorrei avere uno sguardo assoluto, incondizionato, libero, pieno.
11/8/2011
Il paesaggio oggi è modellato da una fitta nebbia che copre le cime delle montagne. Mi viene impedito lo sguardo verso l’infinito. Questa terra comincia a svelare il suo aspetto più severo; chiude il sipario sulle sue meraviglie, si oscura, spegne i colori e parla un altro linguaggio, più consono alla sua durezza di fondo. Non si concede più ma è altrettanto affascinante in queste sue vesti grigie e spettrali.
Ci concentriamo allora sul popolo che abita questa terra. Abbandoniamo le tende e i campi all’aperto per vedere più da vicino alcuni piccoli villaggi. Riavremo letti, muri, pareti, soffitti, case. Un lento ritorno al nostro essere cittadini. Mi mancherà il contatto con la terra, lo sguardo rivolto verso l’immensità di questi spazi, lo scorrere del giorno segnato da ritmi completamente diversi da quelli usuali.
Vivere all’aperto in questi luoghi è un’esperienza totalizzante. Inducono a entrare profondamente in se stessi e aprono alla fusione primordiale con il mondo animale e con quello naturale. E’ un mondo lontano, lo è sempre stato, sin dai tempi antichi. Dall’immensità dei suoi ghiacci la sua gente ha osservato i conflitti, le lotte, le battaglie, le guerre. Gli orrori di cui l’essere umano è capace. Non c’è un termine nella lingua di questo popolo per indicare la parola guerra. E’ minima l’esigenza di imporsi e predominare sul prossimo.
Qui gli uomini non hanno mai negato o mascherato la propria natura animale – da non confondere con bestiale -, è una visione della vita che induce al rispetto e a una maggiore considerazione di ciò che siamo e di ciò che ci sta intorno. Vige il concetto di unità, non di disgiunzione.

Già nel passato le abitazioni degli Inuit e quelle dei vichinghi parlavano due linguaggi diversi, due modi dissimili di intendere la vita. Gli Inuit avevano case basse, ricavate dalla terra, una sua estensione, scaldate dal calore dei corpi. I vichinghi vivevano in abitazioni simili a tende, edificate sulla terra, non facenti parte di essa, scollate dall’ambiente. Plasmate, modellate sull’uomo.
Nanortalik è un piccolo centro, un villaggio di mare. E’ una splendida giornata di sole, la gente passeggia per le poche strade del paese. Anziani seduti sulle panchine, bambini che giocano in riva al mare, ragazzi che ascoltano musica, passeggiano, ridono. Anche qui si respira pace, quiete.
Una rigenerante doccia calda, un po’ di riposo e la sensazione di rientrare in un luogo conosciuto, meno misterioso ed emozionante. L’atto di ricaricare il cellulare mi confonde e mi disorienta. Un’azione elementare che rimanda a un mondo difettoso.

Mi concedo uno sguardo al mio volto segnato dal sole. Tutto è portato all’estremo in questa terra, il caldo, il freddo, il vento, intaccano il corpo, la pelle, ma purificano l’anima.

Passiamo la serata in un pub del villaggio. Siamo l’attrazione del posto: gli Inuit ci salutano, ci chiedono di ballare, si avvicinano e cercano un contatto anche solo con una semplice stretta di mano. I loro sono abbracci che infondono calore. E’ una dimostrazione di affetto che ci fa sentire accolti e ben voluti. Mi diverto molto nel vederli ballare mentre si tengono per mano. Poi però ognuno torna al suo bicchiere di birra. Così, se rimango incantato da quello che vedo, non posso esimermi dal realizzare che sono anime minacciate da nuovi bisogni. L’alcool. Una schiavitù che consuma, una metastasi spirituale.
12/8/2011

Passeggiamo lungo la baia di Nanortalik mentre un po’ di nuvole filtrano la luce. Anche qui il paesaggio è aspro. Si compone di pochi colori: il verde scuro dei radi prati e il grigio delle rocce. In questo ruvido contesto possono manifestarsi gli esseri d’ombra, i Tupilait, e con loro si può sparire nel nulla.

Ma in poco tempo le nubi si diradano e risplende nuovamente il sole. Un’ora per assaporare il paesaggio dall’interno di una casa colorata, dalle grandi finestre che concedono un ampio sguardo sul fiordo e sui riflessi del sole sul mare.

Visitiamo l’ecomuseo che racconta la storia e gli usi di questo mondo dai lunghi inverni. Un piccolo tesoro nascosto che documenta e conserva un patrimonio culturale che risale alla notte dei tempi. Una tappa importante per cercare di capire questi luoghi e le sue genti. Per portare luce sul mondo artico.
Le lunghe e ardue corse in slitta a caccia di orsi, il qajaq per cacciare le foche, le balene, la produzione dell’olio dalle interiora dell’animale, le migrazioni, l’estrazione dei minerali, il litio, il mercurio, la magnesite, l’olivina, la torba, lo zolfo, l’argento, l’oro, la pietra arenaria, il rame, l’allumina, il bromo. La Groenlandia è anche un pozzo di petrolio ancora da esplorare.

Percorriamo l’immenso territorio dei fiordi a bordo di un elicottero. Ci alziamo in volo per raggiungere Narsaq, con una tappa intermedia a Qaqortoq.
E’ emozionante vedere tutta questa bellezza dall’alto. Possediamo la vista dei gabbiani. E’ un regalo inaspettato che impreziosisce ulteriormente il viaggio, già ricco fino ad oggi. E’ il mio primo volo in elicottero.


In Groenlandia non ci sono strade. Ci si può muovere in macchina solo all’interno delle piccole città. Il resto è un’immensa distesa di terre illimitate, senza confini, senza strutture che rivelino la presenza dell’uomo. Le strade perimetrali dei piccoli centri, viste dall’alto, sembrano le mura di antichi borghi medievali, che segnano una netta separazione con la terra circostante, disabitata e solitaria. Gli spostamenti avvengono via mare nei mesi estivi e con slitte e motoslitte nei mesi invernali. C’è un ottimo servizio di voli interni, aerei ed elicotteri, ma sono molto costosi.
Atterriamo e troviamo il villaggio immerso nella luce del tramonto. La piccola baia è costellata di iceberg. I timidi colori delle case risplendono sotto la luce del sole. E’ un paesaggio che toglie il respiro: è di una bellezza essenziale. Lungo le poche strade di Narsaq c’è un po’ di movimento: i bambini corrono in bicicletta, camminano e giocano davanti casa. Un piccolo chiosco è il ritrovo di alcuni adolescenti. Si respira la ormai consueta sensazione di pace e di quiete.
I porti e i mercati del pesce costituiscono il centro, la parte vitale di questi villaggi, tutti fondati in prossimità del mare. Gli abitanti aspettano l’arrivo del pesce, delle foche, delle balene. Le foche vengono tagliate con l’ulu, il tradizionale coltello a mezza luna, la carne è nera, le ossa sono rosse. Un pezzo di interiora crudo è il sapore del mare, della caccia.
I mercati del pesce sono un punto di ritrovo, sono luoghi che raccontano le tradizioni e la storia del popolo Inuit. Sono luoghi della memoria che parlano la lingua del posto. Non quella universale e asettica dei supermercati Brugseni dove ci si può trovare di tutto, dal cibo, ai libri, ai piccoli elettrodomestici, ai dischi, ai superalcolici. Anche questi sono prodotti che arrivano dal mare, dai grandi container che poi giacciono nei porti dei villaggi. Sono due mondi che convivono, si alternano e si confondono.
Mangiamo a casa di un’anziana coppia del posto. Assaggio il piatto nazionale groenlandese, il suaasat, ovvero carne di foca bollita accompagnata da riso. La carne galleggia in un brodo acquoso di colore scuro. Il sapore è deciso e forte; sa di mare e di selvatico. Supero un’iniziale resistenza e finisco col mangiarne due piatti. La cena continua con un ottimo salmone, grande e saporito. La coppia è ospitale ma introversa. Parla attraverso il linguaggio universale del cibo, racconta le sue tradizioni e la sua quotidianità ospitandoci a casa. Sono sufficienti poche parole per completare la descrizione del loro mondo. E’ il marito che fa gli onori di casa. L’anziana signora non risponde direttamente alle nostre domande. Ascolta e rimane in silenzio.
La casa è piccola ma accogliente, esprime benessere; una grande finestra regala un magnifico tramonto che osservo rapito.
Cala la notte e rimaniamo ancora in attesa della magia. Ritorniamo bambini. E’ la notte di Natale. Siamo tutti consapevoli di quello che stiamo vivendo insieme. E poi eccola! L’aurora del nord compare e scompare nel cielo. E’ magica, tiepida come uno sciame di lucciole. Arcuata e vibrante. Luci nell’abisso notturno. E’ la mia prima volta e la ricorderò per sempre.
13/8/2011


Il tempo sembra cambiare, una fitta nebbia è calata sui colori di Narsaq. Ci ha accolto con strabilianti colori e ora ci dispiace lasciarla sotto questa coperta grigia mentre iceberg di diverse dimensioni sono approdati nel piccolo porto.
Dopo mezz’ora di navigazione il cielo si schiarisce e torna il sole. La strada dei re e il grande ghiacciaio Qooqqup sono illuminati da una bellissima luce.

La strada dei re è un lembo di terra che collega due stretti fiordi, nel suo silenzio consegna a futura memoria il ricordo di lontane vicende, di epoche in cui viaggiare era sinonimo di distacco, di allontanamento dalle proprie origini, di partire e non più tornare. Di esplorazione di terre nuove, di istinto di sopravvivenza.


Il villaggio di Igaliku offre tracce di questo passato, attraverso reperti di dimore antiche e frammenti di un’esistenza passata. E’ un posto incantevole ma si avverte la sensazione che sia stato preso in prestito, che sia stata rimossa l’autenticità, la genuinità dei luoghi che ho visto fino ad oggi. La regolarità e la precisione della disposizione delle case, gli spazi meticolosamente studiati, fiori e perfino qualche albero messi intenzionalmente per fini estetici, tradiscono la natura del posto e rivelano una presenza discreta ma estranea, un’ingerenza danese. C’è pure un albergo che offre comodi e costosi residence disseminati nella vallata, un piccolo villaggio turistico per amanti della natura e della comodità.

Torniamo sui nostri passi e dopo un’ora abbondante di camminata raggiungiamo il piccolo molo, dove ci attende il nostro gommone; e dove saltuariamente sosta qualche piccola imbarcazione. Una ragazza dall’aspetto nordico, danese, tedesca, o scandinava, è seduta nel piccolo chiosco in cui l’abbiamo incontrata questa mattina, in attesa di un passaggio che otterrà forse alla fine della giornata, forse domani, forse fra un paio di giorni, in viaggio verso i luoghi più reconditi della sua anima. Navighiamo lungo il fiordo, l’acqua a poco a poco si ricopre di iceberg, e il freddo pungente avvisa della presenza di un altro grande ghiacciaio, il Qooqqup. Il gommone rallenta e si insinua tra i bianchi blocchi di ghiaccio in continuo movimento, si spinge fin sotto l’imponente muro di ghiaccio, in silenzio, è una visione prodigiosa, miracolosa, è la rappresentazione della maestosità e della purezza.

Si rinnova il senso di appartenenza all’immensità del tutto ma con intensità minore rispetto ai giorni vissuti all’aperto. L’arrivo all’ostello, dove pernotteremo per tre notti, è accompagnato dalla sensazione che il viaggio stia arrivando alla sua conclusione. Sono carico di vibrazioni e al contempo conscio del fatto che non accoglierò più dentro di me tutta la bellezza che c’è la fuori. Sentire l’energia di questa terra, toccarla, viverla, raggiungere la sua essenza, sentirsi parte di essa. E’ stato un viaggio intenso, ricco, un’esperienza di vita condivisa con delle bellissime persone.
Sorrido. A migliaia di chilometri di distanza da casa mia. Lontano. Ho trovato la perfezione in tutto: nei luoghi, nelle persone, nelle singole esperienze vissute insieme.
14/8/2011


Vallate verdi e ricche di fiori. Un paesaggio uggioso e severo che ricorda la Scozia e l’Irlanda. L’ostello dove alloggiamo si trova a Qassiarsuk, sull’altra sponda del fiordo rispetto all’aeroporto di Narsarsuaq.
L’aspetto minaccioso muta velocemente e il sole accarezza nuovamente questi spazi immensi. Sono terre più antropizzate quelle che abbiamo visto in questi due giorni. Fattorie e campi coltivati che tuttavia sconfinano con l’infinito paesaggio fatto di rocce e di verde.
Oggi percorriamo a piedi un sentiero che collega Qassiarsuk a Tasiusaq, un piccolissimo villaggio quasi dimenticato, situato in un luogo appartato, in un’insenatura isolata e solitaria. Una fattoria, un po’ di terreni coltivati, e un grande silenzio.


In questo luogo che sembra uscito dalle pagine di una fiaba, alle estreme latitudini del mondo, scivolo leggero sulla superficie dell’acqua a bordo di un kayak. La piccola insenatura su cui si affacciano la fattoria e i terreni coltivati, offre acque calme, lisce, cosparse di qualche raro iceberg; circoscrive il mare quasi recintandolo, rendendolo simile ad un lago. Il kayak si rivela il mezzo di trasporto ideale per questi luoghi, permette di cogliere un maggior numero di dettagli, i tempi di movimento sono lenti, lo sguardo è più accorto e il profumo del mare è più vivo, per quanto lieve e appena accennato.
E così, nella totale oscurità, appaiono ai nostri occhi i primi semi di luce. Silenziosa, sfuggente. Un soffio di colori, un’aureola sottile appesa in cielo, ecco l’Aurora Boreale in tutto il suo splendore. Gli Inuit dicono che in questi chiarori ci sono le anime degli antenati e che ogni bagliore è un gruppo di vite passate. E’ ipnotica.
Discontinua, morbida, delicata, aleggiante.
15/8/2011

Il nome Valle dei Mille Fiori, nei pressi di Narsarsuaq, tradisce un passato fatto di sofferenza e di morte. Il colore rosso rubino dei campi si confonde nei pensieri con il colore rosso sangue dei soldati americani nell’ospedale militare di Narsarsuaq durante la guerra di Corea. Un ultimo soffio di vita nelle lunghe notti artiche. E le fiamme per spegnere la memoria; per cancellare ogni traccia dell’ospedale.

Da finestre arboree si aprono spazi infiniti in prossimità del ghiacciaio. Una ripida risalita sulla montagna. Corde bianche e blu per poggiare lo sguardo dall’alto sull’enorme ghiacciaio. Un’immensità bianca, un mare di ghiaccio che si spinge verso l’interno. Vastità. Sono luoghi che si aprono all’infinito, inesplorati.

“Il popolo di queste terre dice che quando siamo allo stremo delle forze, non bisogna disperare, perché c’è un’ultima speranza: fare uso della Qinngarniq, una preghiera gridata. Ci si deve inoltrare in un territorio dove non è passato nessuno per chiedere aiuto agli spiriti del luogo, gli antenati, gli esseri divini. Lo si fa con voce grossa per far sentire la passione del cuore e raggiungere le distanze più arcane del cosmo, dove gli angeli possono ascoltare”
2.
Forse qui, in questo luogo, comprendo più che altrove la cultura del popolo Inuit. La vita appare come un infinito processo di scambio che coinvolge insieme esseri umani, animali e l’intero pianeta, connettendo le comunità con l’ambiente. L’umanità che conosco e lo stile di vita della mia quotidianità parlano invece ben altri linguaggi. Ciò che sto vivendo è una parentesi che sa di utopia e che mi affascina enormemente.
16/8/2011

Lasciamo l’ostello e ci imbarchiamo per l’ultima volta sul gommone. L’aeroporto si trova sulla sponda opposta. Il viaggio è breve, guardo alle mie spalle e osservo le piccole case allontanarsi; davanti a me vedo sempre più vicino il piccolo porto da cui salpammo il primo giorno. L’imbarcazione fende l’acqua, la schiuma bianca disegna una linea che collega le due rive, velocemente la fessura si rimargina. Questa immagine suggerisce un primo distacco, ma anche una rinascita, fa pensare a un cordone ombelicale che viene tagliato. Ci avviamo a piedi verso l’aeroporto, lungo la strada osservo il panorama, cerco di essere concentrato sul presente, ma inevitabilmente cado per un po’ nei miei pensieri. In prossimità del piccolo aeroporto c’è parecchia gente, arrivi e partenze. Mi piacerebbe ascoltare i pensieri di tutte queste persone. Sono spinte dal mio stesso desiderio di capire, conoscere, osservare? Immagino un intreccio di riflessioni pratiche e di considerazioni più profonde, un universo di emozioni, un immenso caos in questa terra silenziosa. Un’effervescenza generata da questo bianco silenzio, da questo universo incontaminato, cristallino.

Il paesaggio mi mantiene ancorato a questo luogo, la mia mente è qui, ma in questa realtà transitoria, variegata, composita, tipica di un aeroporto, ritrovo il mondo da cui provengo. Il bar dove attendiamo un paio d’ore prima di partire offre abbinamenti indubbiamente infelici.
La radio trasmette musica che non esprime l’unicità di questo luogo, parla la lingua indefinita e inconsistente del mondo da cui provengo. Si accosta in modo stonato rispetto all’immagine degli iceberg in viaggio verso quell’immensità di cui mi sono nutrito fino a ieri e che osservo seduto al tavolo.
E’ un abbinamento goffo, maldestro, è un’imperfezione che mi distrae dal mio presente.
Il viaggio si spegne. Lasciamo Narsarsuaq col sole, colmi di ricordi.
17/8/2011
Un lento ritorno alla civiltà. Pietre nere, vulcaniche e acqua azzurra, una laguna blu per transitare verso il mio mondo.
La mia mente naviga ancora nelle acque costellate di iceberg.
18/8/2011
Pensieri e riflessioni si accumulano nella mia mente. Felicità e tristezza si fondono nel viaggio di ritorno. Emozioni difficili da controllare. Strappato da una nuova dimensione, dall’immensità artica, e ricatapultato nel mio mondo. Straniante. Ripresa lenta e onestamente molto difficile.

Mi siedo e respiro. Una forte sensazione di smarrimento mi assale. Ho bisogno di sfogarmi…tristezza? Accumulo di energia? Non capisco. Mi arrendo a questa tempesta di sensazioni, impotente e sorpreso. Piango.
Saluto il mio io primordiale e mi ricongiungo con il mio io fittizio rimasto ad aspettarmi. Viaggiando in aereo il corpo arriva prima della mente, ancorata nei luoghi in cui ha fabbricato emozioni. Lenta ricongiunzione.
Quell’immensità ha continuato a vivere nei miei gesti, nelle mie azioni, nei miei pensieri, nelle mie parole. Si è lentamente depositata, si è posata in profondità, si è stemperata insieme ai diversi ingredienti della mia coscienza. Riemergendo e manifestandosi nel corso dei mesi successivi al viaggio quell’immensità mi ha rinnovato, rinvigorito, irrobustito; mi ha restituito l’immaginazione, l’ispirazione, la fantasia, che col tempo si era scolorita e indebolita.
E’ diventata una necessità, un’attrazione irresistibile, per un intero anno ho vissuto di quell’immensità, l’ho rievocata instancabilmente con le parole, con la musica e con i pensieri. E’ seducente e richiama a se, e non so e non posso sottrarmi a essa, è puro magnetismo.
Ho visto l’essenza della natura, senza interferenze; ciò che sono abituato a vedere tutti i giorni è una natura contraffatta, falsificata, alterata dall’uomo.

Trovo saltuariamente sollievo godendo delle bellezze della mia terra, amo le Dolomiti, sono preziose, inestimabili, ma non si aprono verso l’infinito, sono contenute, frenate.
In Groenlandia ho conosciuto un mondo senza recinti, senza isole protette e preservate, attorniate da città. Un mondo autentico in ogni sua parte, un assaggio di un mondo primordiale che vive nel passato, nei libri, nella fantasia. E’ la sua tangibilità che disorienta e confonde, è un’illusione che prende forma, è una pagina di un libro di Verne, di Salgari.
Queste suggestioni erano troppo preziose per lasciarle diventare un ricordo. Le ho mantenute vive desiderando una nuova partenza, un ritorno in quei luoghi.
Il secondo viaggio, iniziato a rilento e con un po’ di contrattempi, mi ha portato di più a contatto con la Natura. Era ciò che desideravo, era il mio obiettivo. Col passare dei giorni, quasi senza rendermene conto, sono entrato in una spirale, ogni giorno era più intenso di quello appena trascorso. Il tempo sembrava rallentare e il tragitto aveva un incedere ipnotico, ero gradualmente e sempre più calato in un mondo nuovo, incredibilmente bello, esclusivo, senza esseri umani, abitato solo da qualche animale che ci osservava con discrezione. Un mantra che si è fermato quando abbiamo riportato i kayak al deposito.
Il resoconto che segue descrive un lento smarrimento in luoghi che incutono soggezione, seguito da un graduale ritrovarsi, in essi e dentro me stesso.
Credo di avere sperimentato ciò che il popolo Inuit abitualmente vive in quella terra lontana e meravigliosa.
Luglio 2012
In attesa della partenza riaffiorano immagini cariche di energia. Mi emoziona l’idea di tornare a bere l’acqua dei torrenti ghiacciati, lavarmi in quelle fredde acque, alzarmi la mattina e camminare scalzo sul morbido e umido manto vegetale, osservare il sole che sorge sui grandi fronti glaciali, addormentarmi con le luci evanescenti dell’aurora boreale, rivedere i piccoli villaggi e le case colorate, osservare incantato gli iceberg; abitare quei luoghi, viverli profondamente, lontano anni luce dal caos e dai tormenti della città.
Ricordo che il giorno della partenza, un anno fa, anche il mio quartiere si mostrava in modo diverso, era il luogo di inizio del viaggio. Aveva perso il suo tratto distintivo, la staticità. Quel giorno tutto era in movimento, tutto portava verso luoghi nuovi. Nella mia mente avevo l’immagine di una ruota che cominciava a girare, girare, girare, senza più fermarsi.
Ora devo intervenire sull’altra ruota, quella che ogni giorno, inesorabile, con il suo turbinare regolare e instancabile, mi disattiva e mi arresta progressivamente.
6/8/2012
E’ arrivato il giorno della partenza e mi sento pesantemente ancorato alla mia quotidianità. L’idea del viaggio e la sua attesa si sono fusi nel disordine che gradualmente si manifesta in prossimità dell’avanzare dell’estate e dell’avvicinarsi delle ferie. Stanchezza e tensioni si accumulano e il viaggio diventa quasi una pagina di un libro, una carta geografica, disegnato, artificiale; una pagina su cui sognare e fantasticare la sera prima di andare a dormire, dopo una giornata di lavoro. Tuttavia ora la Groenlandia riapparirà ai miei occhi, diventerà presto realtà e potrò nuovamente respirarla. Devo districare il groviglio che inevitabilmente si crea nella testa.
Durante il volo inizio ad allentare gli ormeggi, la laguna di Venezia vista dall’alto mi regala un primo momento di felicità. L’aereo continua a salire e sopra le Alpi si apre una distesa di nuvole bianche che si infittisce in prossimità di Francoforte. Ritrovo il piacere di volare, mi piace osservare il mondo dall’alto. Quanto siamo piccoli…
Dall’alto, poco prima di atterrare, osservo un bosco, bello, ricco, verde, intatto ma accerchiato da case, edifici, strade; un animale in gabbia di cui l’uomo se ne serve a suo piacimento. Comincio a far fluire i pensieri, e mi lascio andare a considerazioni diverse da quelle abituali sollecitate dalle circostanze che si creano nella mia vita di città, al lavoro, a casa.
Atterro a Francoforte con il cielo grigio e un po’ di pioggia. Un momento di sollievo dopo un lungo periodo di grande caldo. Passeggio fuori dall’aeroporto e il sole comincia a farsi spazio tra le nuvole.
E’ un paesaggio dominato dalla presenza dell’uomo. L’Europa ha un passato straordinario, ha delle città bellissime, non credo che riuscirei mai a separarmi da questa parte del pianeta. Allo stesso tempo non condivido il modo di fruire della Natura, di assoggettarla ai propri bisogni, di pensare di possederla, di averla sotto controllo. Di perderla.

Quei pochi giorni trascorsi un anno fa in Islanda sono stati molto importanti. Ho conosciuto un altro modo, più rispettoso, di concepire la Natura. Ne sono rimasto affascinato. E’ stato utile esserci stato prima di recarmi in Groenlandia, una terra dove tutto sembra girare al contrario rispetto a dove abito io; o dove tutto gira nel modo giusto.
Durante l’anno non rifletto di frequente sulle abiezioni di cui l’uomo è capace nei confronti dell’ambiente in cui vive. Leggo i giornali, mi informo, vedo, ma credo che poi tutto rimanga in superficie. In profondità scendono solo le preoccupazioni personali e più immediate, tangibili, ed è ciò che rende l’uomo egoista. L’aver visto una Natura così imponente, ricca, dominante, ha smosso qualcosa dentro di me. Ho visto un mondo in cui l’uomo non è padrone, è solo parte di esso, e ne ha rispetto. Abitare in quel mondo, per chi non vi è nato, porta inevitabilmente ad un enorme cambiamento, presume rinunce e un altro stile di vita. Sono cresciuto in una città, in una regione del nostro pianeta altamente industrializzata. Una parte della mia esistenza si è già compiuta e ha forgiato ciò che sono ora. Non so se sarei capace di rimanere a lungo in quei luoghi e di operare un così grande cambiamento su di me. Tuttavia so osservare e ascoltare, e mi accontento, se non altro, di essere cosciente dell’esistenza di questo mondo puro e intatto. Anche quest’anno avrò la fortuna di vederlo e di sentirlo, anche se solo per pochi giorni.

Atterro a Copenhagen con il sole, dopo un altro piacevole viaggio tra le nuvole. Copenhagen è una grande capitale del Nord. E’ ben servita, è ricca, è vivace, ma ho la sensazione che sia solo piacevole, che manchi la sostanza, che l’esuberanza del parco Tivoli sia solo facciata, che il trambusto che sento dalla mia stanza d’albergo copra un vuoto di fondo che accomuna tutte le città del mondo. Luoghi costruiti dall’uomo per l’uomo, e celebrati dall’uomo stesso. Tuttavia in essi si celano i nostri tormenti. E si vagheggia uno spazio verde, dove sognare e tornare se stessi.
Copenhagen ha i pregi e i difetti di una città europea, e come tale mi sembra inconciliabile con quel mondo di ghiaccio e di natura selvaggia.
Ho percepito una maggiore assonanza tra la terra del popolo Inuit e l’Islanda. Reykjavik è molto più piccola, è discreta, sicuramente meno vivace, ma parla la lingua della deferenza. Vorrei tornarci perché ha il fascino di una città lontana, non solo geograficamente, ma culturalmente. E’ una città in cui potrei perdermi e non ritrovarmi.
A Copenhagen ci tornerò volentieri, ma con la sensazione del già visto, del già conosciuto.
7/8/2012
La Groenlandia mi saluta in modo insolito, inaspettato.
A Copenhagen, al check-in, vedo alcune famiglie Inuit in attesa di tornare nelle loro silenziose città; l’immagine mi scuote. Assaporo l’arrivo a Narsarsuaq, i ghiacciai, la luce, gli iceberg, ma, superata l’Islanda, una fitta coltre di nuvole copre interamente il paesaggio. La meravigliosa Groenlandia anima i suoi tupilait e si presenta scura e sinistra. L’aereo fa fatica ad atterrare, si abbassa e si rialza più volte sulla pista dell’aeroporto di Narsarsuaq, una danza pericolosa che finirà col portarci settecento chilometri più a nord, a Kangerlussuaq, dove atterriamo con la speranza di raggiungere Narsarsuaq in giornata. L’attesa si rivela più lunga, forse l’aereo ripartirà la mattina dopo.
Conosco tre dei miei compagni di viaggio e in aeroporto incontro altri turisti in transito con i quali condividiamo l’amore per questa terra e scambiamo impressioni di viaggi avvenuti.
Due famiglie di italiani si susseguono, a loro insaputa, in un’avventura di grande fascino: la navigazione in veliero lungo la costa ovest della Groenlandia. Chi è qui in attesa di un volo per tornare in Italia parla con gli occhi; chi sta per iniziare il viaggio ha lo sguardo carico di attese.
E’ nutrimento per l’anima ascoltare queste esperienze, mi cibo di questi racconti, in attesa di ritrovare la terra che un anno fa mi aveva incantato. La osservo dalle finestre del ristorante e aspetto impaziente il suo richiamo. Sono un osservatore, un viaggiatore, non un turista. Se voglio capire l’essenza della Groenlandia, devo viverla in ogni sua forma, devo assaporarla con la pioggia, con la nebbia, con i suoi colori grigi; forse il sole è un’eccezione da queste parti. Potrò avere un’idea completa e non parziale della Groenlandia in questa stagione; potrò sentirla anche questa volta, ma dovrò volerlo io, anche se sarà più difficile.
La nebbia, il grigio, il continuo ritardo dell’aereo mi confondono. Sono in Groenlandia ma è come se non ci fossi. Il paesaggio che osservo dal ristorante assomiglia sempre di più a una cartolina, è insapore, inodore, quasi finto. Sono carico di aspettative, deluse e negate.
Parlo con una persona che mi pare abbia origini pakistane. Racconta una storia che mi rapisce e mi distrae dalla lunga attesa. E’ cittadino danese e per lunghi periodi si trasferisce in Groenlandia per dedicarsi alla pesca, alla caccia e per vivere questi enormi spazi; è il richiamo di una Natura maestosa e importante che lo ha stregato. La tranquillità e il silenzio che si trovano qui non ci sono altrove, dice. E attende il suo volo, abituato a ritardi e cancellazioni, con pazienza e calma quasi orientale.
Le stesse motivazioni hanno indotto una ragazza spagnola, commessa nel negozio di souvenir, a trasferirsi qui, a Kangerlussuaq. Ha sposato un danese e ora vivono in questo luogo lontano, solitario. “Amo questa terra quando si copre di bianco, quando ci si può immergere nel silenzio assoluto, vagare con gli sci da fondo in questa immensità”. Come darle torto? Poche ore dopo la colgo in un momento di malinconia, la faccia contrita e gli occhi rossi, chissà, non sono affari miei.


All’ora di pranzo viene annunciata la cancellazione del volo per Narsarsuaq, evento che diviene l’occasione per dare una svolta alla situazione che sembrava stagnante. Il pomeriggio è libero, nessuna attesa vana, lo dedichiamo alla visita del ghiacciaio Russell, a due ore di macchina dall’albergo. Percorriamo la strada, la più lunga di tutta la Groenlandia, che attraversa valli, lievi alture, fiordi, laghi. Lo sguardo riattiva i sensi, c’è un po’ di pioggia, il cielo è grigio. E’ una Natura sempre severa quella che osservo dai finestrini del furgone, ma lentamente ritrovo la terra che ho lasciato un anno fa. E’ ancora un assaggio, il mezzo di trasporto ne impedisce il contatto, ma arrivati al grande ghiacciaio vedo e sento finalmente la Groenlandia che ho conosciuto. E’ un paesaggio lunare fatto di terra, sabbia e ghiaccio che si fondono, si amalgamano, si muovono all’unisono. All’orizzonte si staglia l’enorme ghiacciaio che prosegue bianco e inesplorato verso l’interno. E’ maestoso, secolare. Respiro e mi sento vivo. Un pallido sole fa un po’ di luce su questo deserto bianco. Mi lascio incantare. L’elemento che domina è l’acqua, una lieve pioggia mi bagna e mi purifica, scioglie la tensione accumulata e nutre i piccoli rivoli che fendono il ghiaccio, su cui si può camminare senza difficoltà. Acqua. Acqua sulla mia pelle, sui miei vestiti.

E poi il sole, che comincia a stemperare e ad addolcire il paesaggio. Ripercorriamo le valli, dimora di buoi muschiati e di lepri artiche. Il verde delle valli è più brillante, il cielo a tratti è azzurro; è un paesaggio più morbido, è una carezza dopo tanta severità. L’aeroporto stesso e il piccolo villaggio sono più accoglienti illuminati dalla fioca luce del sole.
In albergo incontro tre ragazzi tedeschi con i quali scambio due parole. Assorbo l’energia che trasmettono mentre raccontano la loro esperienza appena conclusa in questi luoghi, gestita in totale autonomia. Hanno lo sguardo vivo che avevo io un anno fa. Sono carichi di emozioni, consci e fieri di aver vissuto un’esperienza unica e importante. Li osservo, li ascolto, mi carico e mi preparo…
9/8/2012


Un’altra giornata di attesa e di speranze negate. Ascolto altri racconti, altre esperienze, vite curiose di persone che incontro in aeroporto. La commessa del Polar Lodge è di origini Inuit. Vive a Kangerlussuaq e mi racconta che un giorno, quando andrà in pensione, sogna di trasferirsi a Narsaq, nel Sud della Groenlandia. “Lì, dice, la gente è socievole e amichevole e il luogo è meraviglioso”.
Per un po’ mi rassegno e penso che quest’anno vivrò delle storie e delle suggestioni di altre persone. Gli italiani e il viaggio in veliero, i tre tedeschi, il pakistano, la ragazza spagnola del negozio di souvenir, la signora Inuit del Polar Lodge. Lascio la mente viaggiare e mi immedesimo in questi racconti, così insoliti e fuori del comune che sembrano quasi frutto della mia fantasia che mi vuole portare fuori da queste mura.


All’improvviso avviene l’evento insperato, viene annunciata la partenza del volo per Narsarsuaq. L’aereo finalmente decolla nel tardo pomeriggio e atterra alle nove di sera. Dall’alto vedo l’ostello Leif Eriksson, gli iceberg, i laghi, il fiordo. E’ un’emozione travolgente. L’aeroporto brilla sotto la pioggia, e mi sento a casa.
Prima di andare a dormire facciamo una partita a carte nell’accogliente ostello di proprietà di Blue Ice e sorseggiamo rilassati e distesi un bicchiere di whisky, oculatamente acquistato nell’aeroporto di Copenhagen.
10/8/2012
Mi sveglio presto ed esco dall’ostello. Mi siedo su una panchina e osservo il paesaggio. I ricordi sono tanti e cerco di recuperarli tutti. Passeggio verso la Valle dei Mille Fiori e sento il profumo fresco quasi inodore della bassa vegetazione. Trovo molti funghi, in particolare boleti, grandi e sani, il cui odore è lieve, appena accennato. Il qajaasaq lo troverò nel corso del viaggio, bramo di sentirne l’aroma, non mi bastano più le foglie secche che conservo in un barattolo a casa; il loro profumo è buono, ma ho il desiderio di respirare l’aria di questi luoghi profumata di qajaasaq.
Il tragitto in mare è purificatorio, salgo sul gommone e vivo intensamente ogni secondo del viaggio. Respiro un senso di libertà che non trovavo più da tempo. Il vento e l’immensità del paesaggio puliscono la mente da ogni pensiero. E’ come un volo di gabbiano; li osservo e li vedo in cielo, liberi, fluttuare nell’aria. Ora sono come loro, tra le acque costellate di iceberg. Raggiungiamo Narsaq, con le piccole case colorate sparse sotto i due rilievi.
Il viaggio ha inizio.


Fino ad oggi ho solo avuto degli assaggi, ho vissuto di suggestioni altrui e mie del viaggio precedente. Ci incontriamo con il resto del gruppo, rimasto ad attenderci prima a Narsarsuaq e poi a Narsaq. Prepariamo i bagagli, e come l’anno passato sistemo nel sacco lo stretto necessario (davvero pochissime cose che tuttavia durante il viaggio si riveleranno addirittura troppe; in quell’immensità servono solo gli occhi per guardare). Ci avviamo accesi e vibranti lungo la strada che porta in direzione dell’eliporto e proseguiamo oltre, fino all’hangar, dove sono sistemate le attrezzature e i kayak. La guida fornisce poche informazioni di base, sapendo, per esperienza, che il resto si imparerà navigando. Tutto avviene molto velocemente e mi ritorna in mente l’immagine della ruota che ora comincia a girare, girare, girare, e non si può più davvero fermare! Salgo sul kayak e la sensazione è potente. Dalla riva si vedono tantissimi iceberg. Quasi non credo che nel giro di pochi minuti saremo lì in mezzo, in quel luogo spettrale abitato da quegli esseri bianchi.

Avanziamo nelle fredde acque del mare, il bianco del cielo si confonde con il bianco del ghiaccio. L’acqua è liscia e non si avverte alcun odore, di tanto in tanto affiora un leggero profumo di mare, ma il ghiaccio e il freddo sembrano comprimere gli odori, cristallizzarli, quasi annullarli. Navighiamo tra gli iceberg e colgo tutte le sfumature che sono inaccessibili a chi viaggia con imbarcazioni a motore. L’euforia si placa e mi invade una sensazione di armonia, di calma.
I suoni.
Il suono del ghiaccio che si scioglie placidamente in acqua, quando è giunto alla fine del suo percorso, quando sembra un cristallo prezioso, è delicato, lieve, riposante, ammaliante.
Al contrario i grandi iceberg sono minacciosi, appoggiati in acqua in attesa di rompersi, di sgretolarsi. Quando ciò accade è impressionante. Il suono è simile a un tuono, cupo, profondo. Questi enormi esseri si girano e si rigirano in acqua sgretolandosi in grossi frammenti che alzano onde alte e pericolose. Alle volte si sentono ruggire in ogni direzione, in questo spazio senza dimensioni.


Altre volte non si muove nulla, ma si sente occasionalmente dal profondo dell’acqua un colpo secco, un pezzo di ghiaccio che si rompe. E’ un mondo nuovo, e come tale lo osservo con circospezione e un po’ di timore. Scivolare in queste acque gelide…
Il silenzio.
Il silenzio è surreale, è come un grande quadro, completamente bianco; pochi suoni quando non avvengono le fratture dei grandi blocchi di ghiaccio. Il kayak scivola leggero e si sente solo lo sgocciolio delicato dell’acqua e il borbottio dei gabbiani in lontananza, quasi soffocati dall’assenza di suoni.
Sbarchiamo in una piccola spiaggia e la vista che accompagna il nostro sonno toglie il fiato. La nebbia azzera la vista, si vede solo una distesa di bianco soffice, friabile, su cui si staglia il bianco più intenso, solido, degli iceberg. E’ un luogo che si fa osservare con deferenza, è solenne, quasi soprannaturale. I tupilait si animano nella notte.
11/8/2012
La casa del pescatore.
Ci addormentiamo e ci svegliamo con la pioggia.

Mi alzo presto e la distesa di bianco è ancora lì. Mare e cielo sono tutt’uno. In questo immenso biancore, ora che il sole è sorto, pallido e freddo, gli iceberg si distinguono di più, azzurri, immobili, fermi, imponenti, sembrano sentinelle; dimora di gabbiani che di tanto in tanto spezzano questo silenzio al quale non sono abituato. Mi concentro talmente tanto sulla mancanza di suoni che solo dopo un po’ percepisco il gorgoglio del torrente alle mie spalle.
Il silenzio e la mancanza di odori.
Il piacere di camminare scalzi sull’umida vegetazione, un tappeto morbido che ho atteso per un anno. Un’infinita distesa di empetrum nigrum e qualche boleto.


La tenda, i vestiti, gli oggetti sono bagnati. Gli indumenti da kayak sono umidi. Non sento per nulla la necessità di lavarmi con l’acqua fredda del torrente. Fare e smontare il campo richiede molto tempo ed energie, in parte consumate da questo clima rigido. Mi accorgo di avere perso lo spazzolino da denti, una sottrazione continua. Mi concentro sul paesaggio, sulle riflessioni da scrivere, ma questa volta è più difficile. La Groenlandia è seducente come la ricordavo, ma la modalità del viaggio richiederà maggiore resistenza e sopportazione alla fatica. Sensazione confermata quando, durante la navigazione, incontriamo un gruppo di francesi giunti all’ultimo giorno del loro percorso, stanchi e provati dalla vita all’aria aperta costantemente sotto la pioggia.

Proseguiamo in questo mare ricolmo di iceberg, immobili in uno spazio bianco e inodore. Di tanto in tanto il sole colora il paesaggio e riscalda; una presenza desiderata che comincia ad affiorare dall’incessante biancore.

Un grande blocco di ghiaccio bianco, eccezionalmente alto e profondo emerge in un paesaggio altrimenti dominato da una maestosa cascata che riversa le sue gelide acque nel mare. Ci fermiamo in questo luogo autentico e inviolato per pranzare, riposare e nutrire la vista.

Mentre riprendiamo la navigazione, si alza un forte vento che spazza via le nuvole e finalmente il paesaggio cambia, la luce del sole muta l’aspetto del mare, una distesa di colore verde smeraldo, il cielo diventa limpido, azzurro, e gli iceberg a poco a poco svaniscono. Attraversiamo un fiordo che nel tratto finale si interrompe per proseguire oltre due piccoli laghi disposti in sequenza. Tiriamo in secca i kayak e ci accampiamo in questo angolo recondito, segreto, esclusivo, sede della casa solitaria e disabitata di un pescatore.


Vi entriamo con un certo riguardo e osserviamo l’interno di questa intima dimora che sembra sia stata abitata di recente. E’ ricca di ricordi, di foto, di quadri, di soprammobili, di attrezzi. E’ un mondo che placidamente si svela a noi e che rivela la semplicità e la genuinità di un’esistenza. E’ la casa di un pescatore, ma dalle foto sembra essere stata una fattoria, in tempi lontani. Immagini in bianco e nero ritraggono bambini in posa davanti a vitelli e a pecore. Persone nell’atto di arare campi coltivati. Un mondo rurale che fatico a collocare in questi luoghi glaciali.
Dalle finestre della piccola abitazione si vedono stelle cadenti e un’aurora boreale incolore e appena accennata. E’ la piccola casa che dona ulteriore fascino allo spettacolo, foto di famiglia nelle diverse fasi della loro esistenza, fucili appesi al muro. Un mondo lontano, che osservo con discrezione e riguardo, illuminato da fasci di luce notturni. Mi ricongiungo con questa terra, che ho amato, e che scopro essere ancora più ricca di fascino. Ritrovo i paesaggi infiniti, silenziosi. Fuori fa molto freddo e c’è vento; mi attrae l’idea di dormire in questa accogliente dimora. Mi distendo sul divano del soggiorno e mi lascio cullare dai pensieri, chi avrà dormito qui? Chi si sarà seduto l’ultima volta? I fucili, le facce sorridenti colte in un istante gioioso, spensierato, le reti da pesca, gli arpioni, la chitarra, i lumini, le candele, i boccali di birra, le coperte, chi sono le persone ritratte nelle foto? Che vita hanno vissuto?
12/8/2012
Ci svegliamo alle sei e trenta di mattina, la luce del sole illumina le colline e il fiordo. Dobbiamo oltrepassare i due laghi entro le dieci, prima che la marea ci impedisca di uscire dal fiordo e di immetterci in quello più grande che ci porterà verso l’imponente ghiacciaio Qalerallit.

Ci aspettano un paio d’ore di considerevole fatica, dobbiamo portare i kayak a mano per circa trecento metri; sono pesanti, carichi di provviste alimentari e di bagagli. La stanchezza della prima traversata in kayak sommata al sole che comincia a bruciare il volto, e a questa nuova impresa, mi mette a dura prova. Mi fanno male i muscoli delle gambe, delle braccia, la schiena, il polso sinistro si è gonfiato.
Dopo la lenta e impegnativa traversata, nell’ultima parte del fiordo risaliamo sui kayak e trovo sollievo nel paesaggio che sa di meraviglia. Il verde della vegetazione brilla sotto la luce del primo mattino, l’acqua è calma, vellutata, color cobalto. Lasciamo alle nostre spalle, nel silenzio, un angolo di mondo che sembra irreale, immaginario, tanto è bello; saluto la casa del pescatore, ormai distante e non più visibile.

Ci immettiamo nel grande fiordo e il mare cambia aspetto, non è più placido e accogliente. Il vento e il freddo rendono difficile la navigazione, resa ancora più faticosa da una distesa di blocchi di ghiaccio che intasano il percorso. Alzo lo sguardo per alleggerire lo sforzo e mi concentro sul paesaggio. Rivedo i luoghi dove un anno fa raccoglievo i mirtilli, dove danzavano i caribù, rivedo gli alti rilievi illuminati dalla luce del sole. Dopo quattro ore di fatiche, iniziate di prima mattina, ormeggiamo i kayak in un’isola non tanto grande che diventerà la nostra casa per un giorno. Godremo delle sue bellezze, dei suoi suoni, dei suoi odori, dell’incantevole paesaggio che la circonda, talmente ricco e bello, da non riuscire a coglierlo nella sua totalità. E’ una bellezza piena, che tracima, ghiacciai, rilievi, laghi, mare, iceberg in successione continua, ovunque ci si giri. E’ come cercare di sorreggere tanti fasci di legna, ci si aiuta con le mani, con l’addome, all’ultimo, impacciati, anche con il mento, ma poi cadono, sono troppi, e si lasciano a terra, con la sensazione che non si potranno portare via tutti.
E la nostra sola presenza in questo spazio infinito.

Alcuni grandi caribù si mostrano al nostro sguardo, unici abitanti di questa isola; un piccolo gruppo di foche poggia la testa fuori dall’acqua prima di scomparire nelle profondità marine.

Ritrovo il profumo del qajaasaq, questa meravigliosa pianta che svela un mondo dentro di me.
Il tappeto di vegetazione su cui camminiamo è ricco di bacche di empetrum nigrum, una vera distesa di questi piccoli frutti neri, tanti e facili da raccogliere.
Nel pomeriggio attraversiamo l’isola, saliamo sulle sue lievi alture, ammiriamo dalle punte più alte lo strabiliante paesaggio e ci ricarichiamo. Non c’è una nuvola, la vista è nitida e il sole illumina tutto con i colori del tramonto. Poggiamo i piedi nell’acqua di un piccolo stagno sulla sommità di una scogliera e ci congiungiamo con maggiore intensità con ciò che vediamo e percepiamo. E’ un momento di estasi che mi porta sempre più in profondità nel cuore del viaggio e di questa terra. Le mani sono segnate ed escoriate, accuso stanchezza e affaticamento generale. Tuttavia ciò è ripagato da un forte senso di libertà e di pace.
Ceniamo nella tenda tepee e avvertiamo il calore rinvigorente prodotto dalla cucina da campo, essenziale ma imprescindibile.
13/8/2012
Mi alzo presto, come di consueto, e mi siedo sugli scogli a scrivere. E’ il momento più bello della giornata, un risveglio dolce, una carezza. Il tempo sembra rallentare. Si sentono i gabbiani, prima poco, poi la loro presenza si avverte sempre di più, dall’altro lato del fiordo. Il respiro del mare; piccoli iceberg che navigano solitari di fronte a me. All’orizzonte l’immagine imponente e regale del grande ghiacciaio. La luce dell’alba rende il paesaggio morbido, delicato. Non ci sono nuvole. Il cielo e il mare sono azzurri.

Mi sento ospite passeggero di un mondo perfetto, posso farne parte per un periodo limitato, mi viene concesso di viverlo, di respirarlo; in cambio è come se mi venisse chiesto di portarlo dentro di me e di farlo fiorire.
Il costante contatto con la Natura mi permette di avvertirla più dello scorso anno, di essere più presente in questa realtà, di ascoltarla e di nutrire i sensi. Tuttavia continuo a percepire poco gli odori. E’ un luogo carico di bellezza e di fascino ma inodore. L’acqua del mare non ha profumo, così come la vegetazione, si percepiscono solo lievi sfumature. L’aroma del qajaasaq emerge, trionfa, è il re dei profumi, è l’odore di questa terra.

Lasciamo l’isola e ripartiamo; è un altro giorno luminoso e il mare è calmo. Oggi sento di avere maggiore padronanza del mezzo e i dolori sono quasi spariti, eccetto la fitta al polso sinistro.
Riesco quindi a concentrarmi di più sul paesaggio e ad apprezzare il lento scivolare del kayak sulle acque azzurre e silenziose del fiordo. Facciamo tappa nell’accampamento dove l’anno scorso ho alloggiato i primi tre giorni. I ricordi e le sensazioni si sommano, mi travolgono, è un momento particolarmente intenso. Ritorno al torrente dove ho lasciato più volte scorrere via i pensieri, e osservo incantato le grandi lingue dell’imponente ghiacciaio Qalerallit.
Rivedo un luogo che già conosco ma salire sul kayak per avvicinarmi silenziosamente all’enorme fronte glaciale è pura magia.


E’ il momento più intenso fino ad oggi di questo viaggio. Si situa da qualche parte in più, in aggiunta alle esperienze della mia vita. Non insieme.
E’ l’oltre.
Non è paragonabile a nulla.
Da soli, con i nostri mezzi, lungo un fiordo senza barche, senza esseri umani, solo una Natura grondante bellezza. Mi commuovo.
E’ più di un’immagine, il fronte glaciale visto dalle nostre piccole barche è impressionante, maestoso, il suo suono è grave, profondo. Lo vedo, lo respiro, lo sento. Come l’isola con la piccola vasca di acqua termale dell’anno scorso, e con i suoi abitanti speciali, questo luogo è la porta attraverso la quale accedo a questo mondo, ne vengo assorbito. Sono imbevuto di questo paesaggio. C’è un momento in cui si ha la percezione chiara e nitida di avere superato una porta, un valico, di essere passati oltre, di essere entrati in un altro mondo, liberi, spogli, alleggeriti da carichi in eccesso, puliti. O di avere ritrovato se stessi.


Dopo una silenziosa e assorta navigazione in prossimità del fronte raggiungiamo la spiaggia, dove montiamo le tende. Il ghiacciaio è sotto i nostri occhi, saliamo sulla cima di un’altura e lo osserviamo dall’alto. E’ l’insieme che dona regalità a questo spettacolo della natura, il vento freddo che proviene dalla distesa bianca che si estende all’infinito verso l’interno, il suo suono, solenne e minaccioso. I gabbiani sono il suo esercito, in perenne movimento, il loro canto non conosce pause.
Restiamo in silenzio a osservarlo.
Di notte, sopra il ghiacciaio, in cielo e dietro i rilievi, compare l’aurora boreale, morbidi fasci di luce bianca. E’ il linguaggio della Natura, fiera di presentarsi ai nostri occhi, colmi di stupore, increduli, disorientati, e a questo punto mai sazi.
14/8/2012

La luce dell’alba riapre il sipario sul ghiacciaio e il mio sguardo viene catturato dallo spettacolo che mi si presenta. Resto immobile a osservare, è difficile trovare le parole per esprimere il senso di pace che si prova davanti ad una simile meraviglia. Ogni pensiero viene spazzato via. Resterei ore, giorni, settimane in questo posto. E’ la perfezione, il tutto condensato in questo anfiteatro.
La Natura chiede occhi per essere osservata/osservarsi nel suo splendore.

Circumnavighiamo la penisola su cui poggia, sul lato che si unisce all’entroterra, il solenne ghiacciaio. E’ una giornata di sole intenso. La navigazione inizialmente è difficile, vicino alla spiaggia il mare è ricoperto di frammenti di ghiaccio e di iceberg che in breve tempo diminuiscono fino a scomparire. Ci allontaniamo dal fronte glaciale e il paesaggio cambia, si fa meno grave, incute meno soggezione. Il mare diventa una grande tavola liscia di colore verde smeraldo. Se non fosse per gli isolati iceberg che si muovono lentamente in acqua, il paesaggio, con questo mare e questo cielo limpido, azzurro, potrebbe somigliare alla Sardegna. Alte scogliere che cadono a picco sull’acqua, colori carichi che catturano costantemente lo sguardo. Di tanto in tanto qualche foca sporge la testa e sembra invitarci a giocare.

E’ una successione di immagini, colori, suoni che raccolgo e assimilo, ma sono troppi, fatico a coglierli insieme, a godere di tutta questa bellezza.
Completiamo il giro della penisola ed entriamo in uno stretto canale che ci accompagna in una baia appartata dove montiamo il campo. E’ un altro anfiteatro che si estende attorno ad un piccolo lago. Solo un centinaio di metri e un rilievo ci separano dal grande fronte glaciale.

In questo luogo raccolto, nascosto e protetto assisto al germogliare di un’altra aurora boreale. E’ particolarmente estesa ma non colorata, è bianca, anche se nelle fotografie che scatto risulta avere un accenno di verde. E’ come vedere le fiamme di un grande fuoco, ha lo stesso movimento ma molto più lento. Fasci di luce che compaiono e scompaiono, evanescenti, appena percettibili, soffici. Assomiglia a veli che si spostano col vento e che si dissolvono; a gas che si disperdono nell’aria.
Resto incantato davanti a questo spettacolo; da solo.
15/8/2012
Osservo il sole sorgere sul lago. Si percepiscono il silenzio e la tranquillità, lo scorrere lontano di un torrente e un lieve cinguettio. Quest’anno non entrerò quasi mai in contatto con la popolazione locale. Questa esperienza è interamente dedicata all’osservazione di una Natura intatta e integra. Giorno dopo giorno si confluisce in essa. Non si risparmia mai, e ogni mattina, quando mi sveglio e osservo l’alba, mi sento sereno, calmo. E’ un insieme di elementi che rende questo posto speciale. Elencandoli e analizzandoli singolarmente perdono di significato: mare, montagne, laghi, ghiaccio, il verde manto vegetale. Qual è il valore aggiunto che li rende unici quando si percepiscono nel loro insieme? E’ il poterli osservare, vivere, respirare ogni giorno, cogliendone l’essenza. Sono la bellezza, l’integrità, che si riversano sul loro osservatore per guarirlo, rinnovarlo.


Ci troviamo completamente soli in questi spazi immensi, infiniti. La Natura ci domina e io la osservo incantato. Sono momenti di grande distensione e di pulizia della mente.

Trascorriamo la giornata in questo luogo. Lasciamo i kayak in spiaggia e saliamo a piedi lungo vallate macchiate di laghi, accompagnati dalla piacevole presenza di bianche lepri che saltano abilmente tra le rocce, fino a giungere sulla sommità di un rilievo che domina dall’alto il fronte glaciale. Lo osserviamo da un’altra prospettiva, ne cogliamo l’insieme da questa altitudine. Si vede la grande distesa di ghiaccio protendere dal mare verso l’interno; un enorme oceano bianco che si perde all’orizzonte. La luce del sole e la quasi totale mancanza di nuvole rendono questo spettacolo ancora più ricco e intenso.
L’immagine ci scuote nel profondo e restiamo per quasi due ore silenziosi a osservare questo panorama, immobili, assorti.
Un rigenerante pediluvio in un freddo lago color turchese e l’attesa per l’aurora boreale che questa sera colora il cielo di verde. I lievi fasci di luce e il grave e distante suono del ghiacciaio sono gli elementi distintivi di questa notte stellata.
16/8/2012
La baia dei pescatori e delle aquile
Diventa una piacevole abitudine svegliarmi osservando il sorgere del sole sul lago. Mi distendo sulla roccia ricoperta di muschio e di piante di empetrum nigrum e lascio fluire i pensieri. Mi abbandono a questa incantevole sensazione di serenità. Lo scorrere del torrente, il gocciolio dell’acqua causato dal movimento dei pesci, il calore del sole, il cinguettio degli uccelli, sono carezze che ridonano equilibrio.

E’ una Natura terribilmente bella che tuttavia cela una durezza di fondo. Penso alla difficoltà di procurarsi del cibo in questi luoghi immacolati ma intoccabili. Si nutre lo sguardo, l’anima, ma il corpo ha bisogno di alimenti. Non ci sono alberi, non c’è frutta, non c‘è vegetazione commestibile. Solo pochi animali che non si concedono, protetti per gran parte dell’anno da climi rigidissimi. Eppure l’uomo non si è piegato neppure qui.

Smontiamo il campo, carichiamo i kayak e riprendiamo la navigazione. Usciamo dalla baia e ci dirigiamo verso un fronte glaciale morto, spento, più piccolo e nascosto dentro un’insenatura dove soffia un vento freddo e pungente, e dove l’acqua è quasi bianca. E’ un luogo ombroso, aspro, scuro. Il ghiaccio ha le stesse sembianze della roccia, è un quadro con forme di differenti sfumature di grigio. Dopo una ventina di minuti usciamo da questo rifugio ghiacciato, dominato dal fragore dell’acqua che dall’alto si riversa in mare, e l’atmosfera muta all’istante. Tornati nel grande fiordo, navighiamo sotto un sole continuo e battente, non c’è una nuvola in cielo e l’acqua ha un colore meraviglioso. Dei piccoli di gabbiano guardano dal loro nido il nostro avanzare, sotto la vigile presenza della madre. Mi accorgo di avere più tempo per osservare il paesaggio, per riflettere, per lasciarmi incantare. I primi giorni ero in difficoltà, accusavo dolori un po’ ovunque e questi mi distoglievano dal viaggio e dall’osservazione del panorama che mi circondava. Ho la percezione di essere più attento, più presente, comincio a rendermi conto del piacere di spostarmi in kayak, un mezzo che offre la possibilità di cogliere molti dettagli, di entrare in sintonia con i luoghi che si attraversano; di sentirsi parte di essi.

Iceberg bianchi e azzurri ci accompagnano fino a un’altra baia, dove ci fermiamo e montiamo nuovamente le tende. In prossimità della riva si vedono strutture in metallo che probabilmente sono utilizzate per essiccare il pesce. Sembra essere un luogo frequentato da pescatori e questo ci induce a usare la nostra canna da pesca, senza comunque grossi risultati. E’ tuttavia l’identificarsi con questi luoghi, con le abitudini del posto, anche in modo improvvisato, goffo e impacciato, che intensifica la vicinanza con essi.
In lontananza, oltre il mare, si vedono rilievi più alti del solito, un altro paesaggio che sembra essere uscito da un sogno. Nei pressi del campo, quasi alla base di un rilievo, ci accorgiamo della presenza di un nido d’aquila. I piccoli reclamano a gran voce il loro pasto e in cielo vediamo una grande aquila che scende lentamente in volo verso il nido. E’un’immersione continua in luoghi bellissimi che assaporiamo quotidianamente ma di cui avremo percezione quando ci verranno tolti, quando tutto ciò scomparirà dai nostri occhi. Quando non saremo più insicuri ed esitanti ma diligenti, scrupolosi e puntuali nel nostro mondo fittizio.

Saliamo sulla cima e si apre un paesaggio meraviglioso, una distesa di iceberg, fiordi, isole, penisole, e in fondo, mimetizzata in questo splendore, la piccola città di Narsaq. Mi fermo a osservare questo panorama, accompagnato dalla ormai usuale presenza discreta dei caribù, e sento che l’emozione generata da tanta bellezza è paragonabile alla visione del grande fronte glaciale. Ciò cui assisto, e che osservo incantato per lungo tempo, entra in profondità, entra nel mio cuore. Mi fermo. Mi sento svuotato da ogni preoccupazione, provo solo una sensazione di serenità. Mi chiederò poi, sceso al campo, cosa significa tutto ciò.
E’ un viaggio ciò che sto facendo o è un ritrovare se stessi e una quiete interiore? Perché la trovo qui? E’ così importante per noi esseri umani ritrovare il contatto con la Natura? Perché insisto a tornare in questi luoghi? Solo io mi ritrovo qui? E’ il mio luogo? Dove si ritrovano gli altri esseri umani? A casa? Lontano da casa?
Corona una giornata particolarmente intensa un’aurora boreale come mai l’avevo vista prima, il cielo si colora di verde, un verde carico, vivo, esteso; sono confuso da tanta magnificenza. E’ un’aurora davvero solenne. Alta, intoccabile, miracolosamente bella, si presenta in quel modo distante che ricorda quanto siamo piccoli, comuni e incapaci di generare eventi così eccezionali.
La osserviamo increduli attorno ad un falò.
Prima di andare a dormire metto al riparo dall’umidità le foglie di qajaasaq che ho raccolto nel tardo pomeriggio.
La baia del cacciatore e delle rovine vichinghe
Navighiamo lungo l’incantevole fiordo che ieri abbiamo osservato dall’alto nelle prime ore del tramonto. Ci accompagna nel nostro viaggio, alla nostra sinistra, il grande ghiacciaio che dal mare si spinge verso l’interno per diventare il vasto deserto bianco che ricopre la quasi totalità della Groenlandia. Lo inseguiamo da giorni, entriamo nelle insenature per vedere le sue tante lingue di ghiaccio. Una presenza continua, da cui si staccano gli iceberg che vediamo lungo il tragitto.
E’ un remare sicuro e piacevole quello di oggi, assaporo il lento viaggiare per mare, sotto un sole quasi tropicale che batte insistente da giorni. Non uso più i guanti e neppure il cappello, li ho tolti da quando è cessata la pioggia. L’acqua fredda sulle mani è rigenerante.
Entriamo in un’altra baia che diventerà la nostra dimora per due notti. Non lontano dal campo si vede una casa gialla in legno. E’ l’abitazione di un cacciatore e sembra essere anche una sorta di fattoria, supposizione suggerita dalla presenza di alcune pecore che incontriamo un po’ ovunque, anche in spiaggia.


La guida ci dice che in questo luogo si trova un sito archeologico con resti di antiche abitazioni vichinghe. Sistemiamo quindi velocemente il campo spinti dalla curiosità di vedere i reperti. Osservo di tanto in tanto, mentre picchetto la tenda, dei cumuli di pietre proprio di fronte a me. Sistemo il bagaglio e noto che le pietre, a pochi metri e coperte da una rada vegetazione, sono sistemate in modo ordinato. Seguo la forma e mi accorgo che è un perimetro perfetto, quasi a forma di goccia. Comprendo che questo è il sito, e nelle immediate vicinanze vedo altre forme simili. Mi addormenterò in un luogo che in tempi remotissimi fu sede di un villaggio vichingo. Rimango sgomento, è il luogo ideale per lasciare andare la mente, per vagare con la fantasia, una circostanza assolutamente inattesa. E’ un luogo che andrebbe preservato e tutelato, ma egoisticamente lo considero un privilegio cui ora non riuscirei a rinunciare. Mi scagiono ritenendo che pochissime siano le persone che transitano in questo posto. Sarò un ospite rispettoso e allo stesso tempo lusingato. Come spero lo siano state le persone che mi hanno preceduto e lo saranno quelle che mi succederanno.
Mi abbandono beato sul morbido manto vegetale, penso a cosa possa esserci stato qui, dove ora sono disteso, quali vicende siano avvenute, quali persone abbiano vissuto, cosa mangiavano. Osservo gli iceberg nelle placide acque del mare. Ogni tanto sembrano svegliarsi, tuonano, giganti in acqua, fieri, imponenti. Quali suggestioni avranno destato questi suoni, questo paesaggio artico? Quale significato poteva avere l’apparizione di un’aurora boreale per queste antiche popolazioni? Come salutavano il suo arrivo?

In questo momento di grande pace in cui posso liberamente sognare ad occhi aperti, rifletto sul fatto che i pensieri si sono fatti più ordinati, le tensioni si sono placate. Il movimento leggero dell’acqua induce a un rilassamento completo. Tutto si è fermato. Un intero mondo e antiche vicende passate si stanno rivelando solo a noi.
Nel tardo pomeriggio saliamo in cima alla collina, attraverso una verde vallata, selvaggia e solitaria, tagliata da un torrente. Memori del pomeriggio precedente ci inerpichiamo quasi come se sentissimo un richiamo, è un rituale, una cerimonia serale. E’ la necessità di nutrire la vista e lo spirito. Dall’alto osserviamo il fiordo, uno spettacolo al quale non riusciamo a rinunciare.
Un’aurora boreale appena accennata illumina il cielo. E’ meno maestosa ma è diffusa, tuttavia non si accende come la scorsa notte, rimane incolore. Ombre, soffi nel cielo.
18/8/2012
Il bivacco del cacciatore e la valle delle aquile
Il costante suono degli iceberg e del mare accompagnano il mio risveglio. Un altro giorno di sole che osservo dagli scogli.

Sono entrato nella fase in cui tutto ciò che vedo è entrato nella mia quotidianità; nutro i miei sensi. Traggo beneficio da tutta la bellezza che si presenta al mio sguardo, vivo il presente, vivo questo dolce silenzio, questi immensi fiordi abitati solo da animali. Diventare un’aurora boreale…
Il popolo Inuit vive il momento, non si smarrisce nel passato o nel futuro, è il presente ciò che conta. E’ l’armonia con il mondo circostante, con la Natura, l’obiettivo da raggiungere.
Amare la Natura, temerla, rispettarla, accettandone il suo lato più gentile e quello più duro, spietato, senza volerla cambiare o dominare. Per gli Inuit di tanti secoli fa ogni cosa aveva un’anima immortale, dalle foche, alle pietre, agli iceberg. Tutto vive, respira, comunica, bisogna ascoltare…
L’attaccamento alla terra per loro è oltremodo importante, e gli animali, così come i cacciatori, sono molto rispettati. La morte di un animale non è vissuta emotivamente, è vista semplicemente come un modo per donare all’uomo la sopravvivenza, così come l’uomo talvolta sacrifica se stesso e la propria vita nella caccia. E’ una regola spietata, dolorosa ma chiara e lineare.
Sebbene nell’epoca dell’incontro tra sangue Inuit e danese, le armi e i modi di cacciare abbiano cambiato il rapporto con gli animali, esiste sempre un fortissimo rispetto per la Natura, e il potere della terra, capace di sottrarre la vita quando e come vuole, non è mai sottovalutato.
I groenlandesi dei nostri giorni, frutto della fusione di due culture antitetiche, riescono a coniugare due mondi lontanissimi tra loro; riescono a cacciare di giorno e a navigare sul web la sera.
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Viaggiando per mare in direzione di un’altra lingua del grande ghiacciaio, facciamo tappa in una baia molto piccola e nascosta, dove si trova un bivacco per cacciatori. E’ una stanza di pochi metri quadrati interamente occupata da una tavola di legno che funge da letto; appesa al basso soffitto c’è una lanterna. Lungo mensole improvvisate e molto strette sono appoggiate delle candele per illuminare il rifugio di notte; dello zucchero in un contenitore e nient’altro. Questa dimora è così minimale e spartana, così mimetizzata nell’ambiente che la circonda, che ai miei occhi sembra parlare una lingua di altri tempi, quando la caccia era un duello bilanciato, alla pari, tra esseri umani e animali. Tuttavia, probabilmente, la mia è una visione romantica e illusoria.

Lasciamo la baia e a pochi chilometri di distanza tiriamo in secca i kayak in un anfratto stretto che sale verso la sommità di un’altura. Li leghiamo agli arbusti, una precauzione in caso di alta marea, frequente in questi luoghi. Dall’alto si apre una grande valle, un tempo dimora del ghiacciaio: una distesa di sabbia e pietre, tagliata da un torrente di acqua color bianco opaco. Il paesaggio è molto simile alla valle glaciale, dimora dei caribù e sede del grande lago, che vidi lo scorso anno. Un paesaggio severo che tuttavia mi emoziona, forse per i ricordi che rievoca; quella valle fu il mio ingresso in Groenlandia e questo luogo mi riporta indietro di un anno, richiama alla memoria sensazioni di stupore e di meraviglia. Mi fermo e lascio fluire le emozioni. Alzo lo sguardo e vedo un’aquila che vola nel cielo, gira in cerchio sopra di noi; sento il suono acuto dei suoi piccoli in attesa di essere nutriti. Individuo il nido e rimango a osservare il volo maestoso di questo bellissimo animale. Che posto incantevole per vivere; solitaria e regale rimane in cielo, la saluto e procedo il cammino. Rivolgo gli occhi verso terra a caccia di pietre e soprattutto fossili, animali più facili da catturare… Mi perdo in questo mare di ghiaia, sassi, ciottoli, massi, in cerca di un tesoro nascosto. E’ un paesaggio lunare, ampio, dove predominano le tonalità di grigio. Seguiamo il torrente e lo percorriamo fino alla fonte, l’incantevole fronte glaciale.

E’ l’ennesimo scenario meraviglioso che ci ammalia, ci distendiamo su grandi blocchi di pietra e rimaniamo a osservare, quasi ipnotizzati, questo spettacolo della Natura. Una lingua di ghiaccio, immobile, cristallizzata, chissà da quanti anni è li, e chissà quanti animali hanno bevuto dalle sue acque. Dopo oltre mezz’ora di contemplazione, ognuno chiuso nel suo mondo, lasciamo questo panorama quasi sazi, ripercorriamo la valle e ritorniamo al luogo dove abbiamo lasciato i kayak. Prima di scendere nell’anfratto resto a guardare il mare, da questa prospettiva si vede tutta la baia e il colore dell’acqua è azzurro chiaro, quasi bianco; respiro una sensazione di candore e purezza.
Ritorniamo al campo navigando in queste acque che lentamente diventano di un meraviglioso color cobalto. Quasi giunti a destinazione lasciamo galleggiare il kayak vicino a un grande iceberg che racchiude in se ogni tonalità di azzurro, un oggetto prezioso e pericoloso. Osservo e fotografo tutti gli iceberg che vedo, quasi a farne indigestione. Poi non ne vedrò più.
E’ l’ennesima notte meravigliosamente stellata, ma le luci notturne non si concedono.
19/8/2012

Mi sveglia il belare di due pecore che sono scese fino all’accampamento. Mi alzo e le osservo, libere nel loro mondo. E’ un’altra bellissima giornata di sole. A differenza dello scorso anno in cui saltuariamente ci accoglieva la nebbia del mattino, per poi diradarsi e dissolversi, quest’anno il cielo è costantemente pulito, limpido. La Groenlandia quest’anno mi ha ricevuto mostrandosi in tutta la sua severità, ma solo per pochi giorni. Ora mi sta regalando lunghi giorni di sole, quasi a volersi sdebitare per il duro saluto iniziale e per darmi l’opportunità di vivere nella sua totalità questa esperienza ininterrottamente all’aperto.

Oggi percorriamo un lungo tratto di mare, iniziamo a navigare verso le dieci di mattina e, dopo ventuno chilometri, alle due di pomeriggio ci fermiamo in un’insenatura, nell’isola di Tuttutooq. Il nome tuttup in groenlandese significa caribù
4, sarà un caso? O è una citazione voluta in onore di questo animale? Un pretesto per esprimergli stima e rispetto? Congetture personali senza alcun valore.
Il luogo è sede di un antico insediamento Inuit, il villaggio di Inussuk. Le poche informazioni che troviamo sul posto indicano che le sue rovine coprono un ampio arco temporale, dal 1350 al 1800, e consegnano a futura memoria uno spaccato di vita di questo popolo. E’ una testimonianza importante per conoscere l’evoluzione delle abitazioni Inuit nei secoli.

Da questa isola si apre, da un’altra prospettiva, più ravvicinata, il panorama che pochi giorni fa, il 16 agosto, mi aveva incantato: osservo anche oggi la distesa di iceberg, fiordi, isole, penisole, e in fondo la piccola città di Narsaq. E’ un luogo incantevole per stabilirsi, l’uomo di oggi e di allora sembra avere scelto questi posti per godere di una bellezza piena, maestosa; per respirarla, viverla; per sbocciare e dissolversi in essa.

Solo nove chilometri ci separano da Narsaq, barattiamo l’ultima notte in tenda con una notte in più in una di quelle case colorate che si vedono anche da qui. Ho voglia di vivere il piccolo centro, di rivedere da vicino la vita del villaggio, il mercato del pesce. Tuttavia sono combattuto, so che questa decisione implica un graduale rientro alla civiltà, a un allontanamento da questo mondo che si è concesso per tanti giorni solo a noi. Risaliamo sui kayak e percorriamo l’ultimo tratto di mare. Rifletto sul fatto che ormai siamo tutt’uno con questa piccola imbarcazione; mi ci sono affezionato, mi ha portato in luoghi che non avrei mai immaginato di poter raggiungere con la sola forza delle mie braccia. I dolori dei primi giorni sono un ricordo lontano, i muscoli si sono tonificati e gli ultimi chilometri li affrontiamo senza fatica. Un copioso numero di iceberg sosta all’ingresso del villaggio; opalescenti guardiani che sembrano custodirlo e proteggerlo.
Raggiungiamo la spiaggia, tiriamo in secca i kayak e poi fin su, nel deposito. Un accenno di malinconia, subito allontanata dal bellissimo chiarore del tramonto che colora Narsaq e le sue case, le piccole caramelle di zucchero sparse sotto i due torreggianti rilievi. La città è illuminata dalla stessa luce dello scorso anno; è la seconda volta che arrivo in questo luogo, alla medesima ora con le lucenti tinte del crepuscolo.

Era un desiderio fortissimo tornare qui, ne respiro il senso di pace, tipico di questo e degli altri centri della Groenlandia. Che calma, che silenzio, che quiete in queste città.
Osservo uno spaccato crudo ma reale che mi si presenta mentre sistemiamo le attrezzature e i kayak nel deposito. Proprio nell’hangar adiacente al nostro viene sistemato il corpo senza vita di un caribù. I due cacciatori, di sangue danese, sono la testimonianza del nuovo mix di antico e moderno. Due occidentali perfettamente calati in questo luogo lontano, alla ricerca di un pezzo di mondo andato, estraneo al loro. Avranno trovato la loro pace interiore?
Raggiungiamo a piedi la nostra verde dimora, passeggiando lungo una strada asfaltata: che strana sensazione dopo avere poggiato i piedi per dieci giorni sul morbido muschio, sulle grigie pietre delle valli glaciali e nei bagnasciuga delle tante spiagge dove abbiamo montato le tende.
Trascorriamo un paio d’ore, fino a mezzanotte, nell’Arctic Cafè, un pub, dove improvvisiamo suoni, canzoni e rumori con una batteria e una chitarra di proprietà del locale. Fuori una lieve aurora boreale e un enorme silenzio.
20/8/2012
Narsaq, più che Qassiarsuk, è considerata da alcuni storici il luogo dove Erik il Rosso si insediò e dove fondò l’accampamento di Brattahlíđ.
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Quanti esseri umani si sono avvicendati in queste zone, è impossibile non considerarle ospitali e accoglienti, oltre che meravigliose, almeno in questa stagione dell’anno. Non riesco a immaginare come la città possa cambiare durante l’inverno. Certo sarà un luogo più desolato e aspro; ma ora è un incanto.
Il silenzio che si percepisce passeggiando per la città è lo specchio dei suoi abitanti.


E’ difficile trovare in Groenlandia persone che amino conversare o che siano loquaci. Ricordo la cena proprio qui, a Narsaq, a casa di una famiglia Inuit; ricordo il grande silenzio che tuttavia esprimeva piena ospitalità. La mancanza di slancio nel comunicare avviene nella vita quotidiana, così come nei momenti ufficiali di incontro, nelle occasioni di festa. Gli europei sembrano non apprezzare questo atteggiamento, lo scambiano per timidezza, scortesia o rigidità. Gli Inuit, all’opposto, considerano gli europei, rumorosi, chiassosi, verbosi.
Queste persone amano riunirsi ma non necessariamente per conversare, è il solo atto di incontrarsi che infonde calore. Gli amici si salutano e poi si siedono vicini, amichevolmente in silenzio.
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Tutte le persone che incontro mi salutano e mi sorridono, li trovo ospitali, provo la stessa sensazione dell’anno scorso. Mi sento accolto, anche se so che è un saluto rivolto a un turista. Il mio è uno sguardo fugace e generico, non realistico, obiettivo e attendibile di chi, dall’esterno, cerca di fondersi nella comunità.
Tuttavia apprezzo molto ciò che vedo.
Passeggio per le vie della città; e tra le case, che sembrano contenere solo il necessario, oggigiorno anche articoli costosi e alla moda, ma non si vede sovrabbondanza e eccedenza. Tutto è misurato, sembra esserci solo ciò che realmente serve per vivere e ogni tanto qualche concessione al superfluo, un computer di valore o una televisione al plasma. Oggetti che per lo più servono per trascorrere i lunghi inverni polari.
Osservo un gruppo di anziani che fa capannello nel chiosco accostato alla bottega del pesce. Sono cinque, sei persone che attendono in silenzio l’arrivo di qualche acquirente. Vendono mirtilli e baccalà, e passano la mattina seduti su panche e sedie di legno. Si fanno compagnia con poche parole e con molti sguardi. Le loro facce sono piene di rughe, segnate da una vita senz’altro faticosa. Ciò nonostante, quando li osservo i loro occhi comunicano sicurezza e tranquillità. Assaporo dopo pranzato, nella sobria casa verde, i loro gustosi mirtilli freschi.
Narsaq questa volta mi consegna i loro occhi e i loro volti; mi resterà il ricordo di queste persone, tranquille e silenziose, quasi impercettibili, in attesa di sfiorire nel loro splendido fiordo.
21/8/2012

Come lo scorso anno, saluto Narsaq offuscata dalla nebbia; è calato il buio biancore del primo giorno. Un ultimo acquisto di nere bacche di empetrum nigrum nel chiosco e poi saliamo sul gommone.
Il viaggio è davvero insolito, procediamo a tutta velocità in uno spazio adimensionale, senza contorni, senza orizzonte; solo isolati iceberg dispersi nel mare il cui chiarore, fortunatamente, emerge su quello della nebbia. E’ un paesaggio fantasma, surreale. Non si vede niente, sento solo un gran freddo.
Giunti a Narsarsuaq, la nebbia si dissolve e ricompare il consueto cielo azzurro e soleggiato.
I miei occhi osservano distratti il paesaggio, intenti a fissare, in aeroporto, il tabellone delle partenze. Un altro ritardo, l’aereo partirà? Immaqa, traducibile in forse si, forse no, vige l’indeterminatezza tipicamente groenlandese. Uno sguardo veloce di tanto in tanto all’immensità la fuori mi ridona serenità.
E un’altra notte inaspettata a Narsarsuaq.
22/8/2012


Partiamo con un giorno di ritardo. L’aereo decolla e finalmente posso osservare dall’alto lo spettacolo che un anno fa mi lasciò senza fiato. Dimentico il tentativo di atterraggio di quest’anno nella fitta coltre di nebbia e lascio vagare lo sguardo tra le montagne ricoperte di neve e le distese di ghiaccio che diventano infinite verso l’orizzonte.
Ai miei occhi, abituati al senso di grandiosità e di spazio di quella terra ormai lontana, Christiania, una delle mete più visitate di Copenhagen, sembra una prigione. Le persone che vi abitano mi sembrano schiave di un mondo che non esiste, fittizio e insapore. Non giudico la motivazione che ha dato origine a questo quartiere, o allo stile di vita. Tuttavia è inevitabile, con gli occhi di adesso, carichi di vastità e di armonia, vedere qui semplicemente l’assenza di vita.
26/8/2012
Sogno di essere ancora in Groenlandia, navigo tra le fredde acque del mare con il kayak; è un sogno vivido, reale, sono ancora lì.
28/8/2012
Sogno ancora di essere in Groenlandia, sogno i kayak, sono immagini incredibilmente reali.
La mattina scendo in spiaggia, a Santa Croce (Trieste), e dopo avere fatto un primo tuffo in acque ben più calde, proprio al mio fianco attracca un kayak, un monoposto; osservo i pertugi, dove si metteva il cibo, le pagaie della stessa marca, e il mio sguardo si perde oltre l’orizzonte.
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Viaggi come questi servono per vedere posti nuovi, se si ama viaggiare. Per conoscere persone, vivere esperienze inedite, interagire con altre culture. Ma, soprattutto, per fermarsi, per riflettere su se stessi, in modo profondo, compiuto. Quante energie sprechiamo inutilmente, alla ricerca di qualcosa che neppure sappiamo. Ci sentiamo sempre in obbligo di raggiungere uno scopo, un obiettivo, per dare un valore alla nostra esistenza. Seguiamo testardamente strade che non portano da nessuna parte, le lasciamo, ne seguiamo o ne costruiamo di nuove. Ne ripercorriamo di vecchie e desuete. Siamo formiche che si muovono incessantemente. Il più delle volte il continuo movimento ci crea disagio, confusione, smarrimento. Se ci fermassimo di più a osservare, ad ascoltare ciò che ci sta intorno, fuori dalle nostre scatole, fuori dalle nostre città; fuori da noi stessi e dai nostri turbamenti, reali o immaginari. Se ci fermassimo a respirare serenamente, a conoscere la nostra vera natura. Dovremmo cercare di uscire dai nostri mondi fittizi e prendere coscienza della realtà, che non possiamo eludere. Non c’è nulla di filosofico o spirituale in queste considerazioni, è solo una presa di coscienza oggettiva e obiettiva. Non dico nulla di nuovo, neppure a me stesso. Ognuno trova la sua strada, a modo suo. E ogni tanto la smarrisce.
Questi due viaggi mi hanno dato una scossa, mi hanno urlato: “Fermati! Guarda/ti! Ascolta/ti!”