Racconto – Laura Zanlungo

Gentili tutti di Terre Polari, vi invio il racconto “Islanda, viaggio nell’isola che non c’è” sul mio viaggio in Islanda di quest’ estate (30 luglio-6 agosto 2013), con il quale desidero partecipare al concorso. Allego anche un’immagine.

ISLANDA, viaggio nell’isola che non c’è.

“I sogni colorano il buio” era scritto sulla guida di Filippo, e il mio sogno era, da tanto tempo, andare nel Paese del ghiaccio e della luce.

Atterriamo in piena notte nella città addormentata, ma al risveglio la luce trasparente attraversa i nostri occhi sgranati sui bordi nitidi delle case. File di pesci scuri che si essiccano al sole (!) disposti su lunghe griglie di legno sono il nostro primo incontro con questo mondo fuori dal mondo. La collina verde smeraldo di Seltùn è puntellata di fumarole, la terra bolle fuma e gorgoglia, i contorni delle cose si dileguano e le distanze sembrano infinite. L’acqua danza nelle pozze impregnate di bianco emettendo un rumore sordo, come un mantra lieve ripetuto senza sosta.

Siamo un drappello ben assortito con qualche motivo per festeggiare: una laurea in Arte, un’amicizia di ferro o, semplicemente, la sospirata vacanza. Il nostro pulmino è già perfettamente attrezzato di generi di conforto, e presto scopriremo la cultura di Filippo su ogni tipo e colore di caramelle gommose. Ci affidiamo a lui, che subito ci ispira fiducia, giovane e attento, sarà nostro prezioso e insostituibile autista-cuoco-cicerone-capospedizione.

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Ci dirigiamo all’interno dell’Islanda, lasciando l’unica strada che percorre tutto il perimetro dell’isola, ci inoltriamo nello sterminato deserto di lava, interrotto da montagne morbide addomesticate dai venti e puntellato da laghi turchesi accolti in lucide scodelle nere. Specchiamo nell’acqua le nostre ombre lunghissime, la luce ci accompagna fino a notte inoltrata.

Manuel ci inizia al gergo romanesco e tutto diventa ‘na crema. Le pecore grassocce cariche di lana, i bordi nitidi delle cose, il nulla, il silenzio carico di energia, le pietre striate di rosso, giallo, verde, bianco.

Il campeggio di Landmannalaugar è un puntino in una sterminata pianura circondata da montagne scolpite dai venti. Dormiamo nella tenda geodica di Terre Polari, infilati nel doppio sacco a pelo, tirando tardi per non spegnere la stufa. Nel nulla fa freddo, ma la natura ha previsto un antidoto straordinario: ci immergiamo nella pozza calda da cui non vorremmo più uscire. Un laghetto termale con una piccola cascatella a cui è impossibile avvicinarsi perché lì il calore diventa insopportabile.

In una bella mattina di sole lungo il sentiero raggiungiamo la cima di Brennisteins-Alda: ci troviamo a 900 metri ma sembra di essere in altissima montagna. L’aria è frizzante e il nostro sguardo spazia oltre i confini del mondo lungo sinuose montagne color sabbia, striate di ogni rosso, verde scuro e giallo. Riccardo s’ingegna e fa scaldare il panino nella fumarola, mentre Filippo distribuisce un provvidenziale thermos con una bollente minestra di asparagi.

Lungo piste da pionieri, sconnesse e poco indicate, s’incontrano tanti torrenti da guadare, fino a tornare sulla strada principale. Incontriamo il più grande ghiacciaio d’Europa, il Vatnajokull, 3.300 km³ di ghiaccio con uno spessore medio di 400 metri, ma che arriva anche a più di 1.000. Con gesti un po’ impacciati infiliamo ramponi e caschi che troviamo ben nascosti sul limitare del ghiacciaio e saliamo in fila indiana, con una sorta di riverente rispetto per il gigante che ci sovrasta. Fessure profonde di un azzurro intenso calamitano i nostri sguardi rapiti tra il bianco e le nuvole. La strada del ritorno è costellata di sassi tondeggianti forgiati dal tempo a strati multicolore, spaccati in grossolani frammenti regolari rimasti vicini, testimoni di un ordine primordiale a cui non è possibile opporsi. Apro le braccia e alzo lo sguardo verso un cielo gonfio di nuvole nere: qui vento, acqua e fuoco hanno stretto alleanza per creare una terra fuori dal mondo, e l’hanno scagliata nel firmamento, a imitare la luna.

Siamo nel regno degli iceberg di Jokulsarlon, uno scenario da film (c’è arrivato anche l’agente 007!), dove la brillante massa trasparente scivola dolcemente verso l’oceano. Bardati come astronauti esploriamo la laguna con il gommone sovrastati da decine di piramidi di ghiaccio dai contorni blu, monumenti muti e straordinari che nessuna opera d’arte potrà eguagliare.

La cena in ostello è un allegro rito di partecipazione corale, dove ognuno mette del suo zigzagando tra le pentole degli altri gruppi anch’essi intenti nella preparazione dei pasti. Gustiamo piatti squisiti che sbucano da quell’apparente assenza di tutto, soprassediamo sull’hakarl, lo squalo putrefatto vanto nazionale islandese, ma assai lontano dai nostri gusti e dal gradimento delle nostre narici.

Scopriamo che ogni cascata è uno scrigno unico e speciale: la cascata d’oro riflette un perfetto e nitido arcobaleno; alla cascata liquida, dove un uccellino si ostina a fare la doccia sotto le gocce sferzanti, ci si può passare dietro e ammirarla con la schiena rivolta alla roccia umida e il viso schizzato da minuscole gocce di vetro. La cascata nascosta sbuca dietro un anfratto di terra e muschio, precipitando da una crepa profonda della roccia; la regina delle cascate, enorme e possente, ci guarda dall’alto della sua maestosità; la cascata di basalto è racchiusa in un sontuoso anfiteatro di pietra nera, come una perla preziosa nella sua ostrica. L’acqua si butta a precipizio, il suo tuffo copre ogni altra voce e parla di neve sciolta a gocce che si accorpano in discesa e diventano folla di un corteo che grida con forza.

Dal canyon di Klaustur, due chilometri di voragini che squarciano la terra, arriviamo a Vik, definito dalla guida “popoloso e vivace centro della costa sud”: incontriamo un tranquillo paesino di poco meno di trecento abitanti, sormontato da una chiesetta bianca con il campanile a punta e custodito da tre faraglioni, che la leggenda racconta come giganti pietrificati provenienti dal mare. Qui ci rilassiamo nella bellissima casa di legno di Terre Polari, fornita di ogni comfort, compresa la vasca a idromassaggio.

Camminiamo lungo l’arco di pietra che si protende sul mare d’argento e domina dall’alto la sconfinata spiaggia nera, spartiacque tra questo mondo e l’isola che non c’è, dove tutto è trasparente e induce a guardare oltre.

Come bambini incantati andiamo a caccia delle pulcinelle di mare che si lasciano fotografare in ogni posa, con il loro becco vistoso e la placida aria un po’ pinguina. Sculture a prisma di cobalto nero pesto affrescano le volte delle grandi grotte che si trovano lungo la riva. Non occorre cercare l’arte altrove, è tutto. Il nostro sguardo si perde ai confini tra il nero e l’azzurro, sopra di noi gli uccelli padroni di queste spiagge sterminate, che difendono le loro uova deposte sulla sabbia. E’ bello pensare che ci siano luoghi della terra che l’uomo non può dominare, ma solo contemplare.

Viaggiamo ai confini di tutto e lo dimostra Pingvellir, la zona limite tra la faglia eurasiatica e quella americana, dove le due terre si allontanano di un millimetro l’anno, camminiamo su questo confine magico all’ombra delle immense mura di un castello di roccia. Salutiamo l’Islanda ammirandone il suo simbolo: il Geyser, che con i suoi 60 metri di getto si esibisce puntuale come un artista del circo, sorvolando occhi rapiti e bocche aperte. I piccoli intonano una canzoncina propiziatoria, che invoca la comparsa del fantasma, che dopo il breve spettacolo sfuma nel nulla in pochi attimi, lasciando una scia di umido e di zolfo.

La nostra avventura termina a Rejkiavik, da dove era partita. Qui chiese monumentali e avveniristici palazzi di vetro si alternano a casette dai colori improbabili, verde acido e giallo limone fanno a gara a esorcizzare il buio che domina per metà dell’anno su tutto il Paese. Troviamo familiari vie dello shopping, con gli omologati negozi che non ci fanno più sentire stranieri in quasi ogni parte del mondo. Guerrieri vichinghi in pose epiche guardano verso il mare riportandoci a un leggendario passato di conquista.

Abbracci sinceri e pieni di gratitudine ci congedano da Filippo e dai nostri compagni di viaggio.

Ripenso con felicità a quei giorni e al senso d’immenso che mi hanno lasciato dentro, e sogno con il poeta Borges, che cosa non darei per la gioia / di stare al tuo fianco in Islanda / sotto il gran giorno immobile /  e condividerlo adesso /  come si condivide la musica /  o il sapore di un frutto”.